Il suono dei «campini», sul viale Paoli e più in là
Anoi nostalgici di bianco capello fa molto piacere la fresca notizia del nuovo centro sportivo che la Fiorentina costruirà a Bagno a Ripoli, fa piacere la certezza di questo affare repentino, concluso con rapidità statunitense da Rocco Commisso, perché è così che si fa — anzi che si fast — senza girare tanto intorno ai luoghi, ai progetti, alle possibilità e agli altri mille inciampi.
Quegli inciampi che, a suo tempo, erano capitati a Cecchi Gori e ai Della Valle, i quali ultimi, se la memoria ci sorregge quel tanto che basta, avevano acquistato i terreni a Incisa o giù di lì, per non andare in porto.
Ci fa piacere questo acquisto, come ci farebbe molto più piacere se lo stadio, una volta abbellito, rinnovato e comunque da noi molto amato, rimanesse dov’è, casa invariabile della Fiorentina e della sua, nostra, vostra storia, voltando le sue celebri spalle e la sua strepitosa torre di Maratona a quelli che una volta erano i «campini», definizione affettuosa, quasi tenera, che indicava l’arte di arrangiarsi, quel tanto che occorreva per mettere su un piccolo centro di allenamento. Lo stadio , al quale è stato cambiato tre volte il nome senza avvertirlo (Berta, Comunale, Franchi), secondo il parer nostro non è lo stadio cittadino, ma il «cittadino stadio»: uno di noi. Dicevamo dei campini, ai quali togliamo le virgolette, lasciando brillare il nomignolo affettuoso. Il Campo di Marte ha sempre avuto una storia superba e mai esibita con vanità. Si chiama così non perché un signore di nome Marte ne fosse l’antico proprietario, ma perché era il luogo ampio e decentrato in cui si svolgevano le esercitazioni militari, come nel Campo Marzio dell’antica Roma. E Marte, si sa, è il dio della guerra. Quando fu costruito lo stadio, inaugurato nel 1931, anche se ancora incompleto, lo destinarono in un angolo appartato del vasto Campo nel quale i militari prima a cavallo, poi di corsa con i bersaglieri, quindi con i carri armati e i camion dal cupo colore, vi svolgevano le loro obbligatorie esercitazioni. Per non parlare di Buffalo Bill che nel 1906 piantò le tende del suo circo più o meno nella futura area di rigore.
Ma anche molto più in là, visto che quattro treni speciali fecero scalo alla stazione di via Mannelli per scaricare 1300 tra uomini e cavalli, come ci ricorda Marco Piccardi nel suo intervento nel libro «Lo stadio racconta». Torniamo ai campini che furono in qualche modo, ovviamente legittimo, conquistati ai tempi della Fiorentina che profumava di secondo scudetto. Prima di allora, la squadra si allenava allo stadio oppure al Militare, anticamente chiamato Divisionale, oppure al Padovani, mitico campo di scadente pelo sul quale giocavano le squadre rionali, come la Sanger, molto cara a chi scrive. I dirigenti della Fiorentina, a cominciare da Egisto Pandolfini che era il direttore sportivo ed anche qualcosa di meglio, si erano resi conto da tempo che una società del livello di quella viola, con l’alta classifica e gli scudetti in bacheca, non poteva fare a meno di un campo di allenamento, meglio ancora se i campi fossero stati due.
E così, invadendo il terreno militare ormai diventato comunale, la Fiorentina si attrezzò un po’ meglio per quanto riguardava il lavoro quotidiano. È vero, i viola dovevano attraversare la strada a piedi, dai cancelli della Maratona o giù di lì, per arrivare ai campini, ma questo succedeva anche alla blasonata e ricca signora Juventus, i cui giocatori adoperavano gli spogliatoi dello stadio Comunale e attraversavano la strada per andare al Combi, dove si allenavano.
Oggi il Centro sportivo intitolato ad Astori — il cui nome ci auguriamo rimanga anche nel nuovo impianto — è diventato più funzionale, più riservato e attrezzato, rispetto ai giorni in cui i campini si presentavano con tutta la loro disinvolta nudità. Non c’era nessun telone, nessuna protezione visiva, niente di ingombrante e di scoraggiante che impedisse alla gente, al popolo viola che si radunava dietro la cancellata, sul viale Paoli, di gustarsi l’allenamento. Transitava il viandante in motorino o in auto, e si imbatteva nella Fiorentina, anche senza volerlo, anche senza saperlo. A quel punto una sosta era inevitabile. Eppure, anche quando il pubblico aumentava, un silenzio imprevedibile si diffondeva, fin troppo educatamente, su tutto e su tutti. E si sentiva la voce dei giocatori e anche quella del pallone appena calciato. Che ci crediate o no.
❞ Non c’era nessun telone, niente che impedisse alla gente che si radunava dietro la cancellata, di gustarsi i giocatori che si allenavano