CONTRORDINE COMPAGNI: TAGLIAMO I PARLAMENTARI (PER LA RAGION DI STATO)
Caro direttore, dopo il Senato, anche la Camera dei deputati ha appena approvato in seconda lettura, con la maggioranza davvero plebiscitaria di 553 voti palesi a favore, il progetto di legge costituzionale che modifica gli artt. 56, 57 e 59 della Costituzione, con il risultato di ridurre il numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. E aggiunge che i senatori a vita di nomina presidenziale non possono complessivamente superare il numero di cinque senza porsi il problema degli ex Presidenti della Repubblica. Si tratta di una riforma apparentemente utile, perché sembra obbedire all’imperativo, diffuso nell’opinione pubblica, di ridurre i costi della politica. Mentre è in realtà un’iniziativa pericolosa e dannosissima. Ridurrà il grado di rappresentatività del Parlamento. Ostacolerà l’elezione di parlamentari dei partiti di minoranza, già limitata dalla soglia di sbarramento del 3% del Rosatellum. E, soprattutto, potrà determinare una sorta d’incostituzionalità sote pravvenuta di tale legge elettorale. Com’è agevole ricavare dalle sentenze della Corte costituzionale n. 1/2014, relativa al Porcellum e n. 35/2017, relativa all’Italicum. È infatti una conseguenza naturale della riduzione del numero dei parlamentari l’ampliamento delle circoscrizioni elettorali, che diverranno automaticamente meno contendibili per i partiti o per le coalizioni minori. E la mancanza delle preferenze nel sistema del Rosatellum, unita all’ampliamento delle circoscrizioni, renderà il voto dei cittadini ancora più indiretto. Dato l’effetto di trascinamento dei collegi uninominali, che sono in realtà una proiezione di quelli plurinominali, l’alterazione del principio della parità del voto si produrrà in entrambi. Dunque, il vulnus di rappresentatività che si verrà a creare con questa riforma è serio. E il Rosatellum lo aveva (forse) evitato proprio con la non eccessiva ampiezza dei collegi elettorali. Ma se salterà questo rapporto, la legge elettorale vigente diverrà incostituzionale. Difatti verrà meno quell’equilibrio tra rappresentatività e governabilità costantemente richiamato dalla Corcostituzionale in materia. E così avremo un’insanabile lesione di quella che la Corte ha già definito la «pienezza costituzionale del diritto di voto». Non a caso, sino alla attuale votazione, i partiti di sinistra che oggi sono al governo erano contrarissimi a tale «taglio», ma la ragione di stato ha imposto questa rapida inversione su una materia qualificante per gli accordi di coalizione del governo giallorosso. È vero che la determinazione del numero dei deputati e dei senatori non attiene ai valori supremi dell’ordinamento repubblicano, come tali insuscettibili di revisione costituzionale e questo argomento è stato utilizzato alla Camera per giustificare il revirement della sinistra. Fu infatti la legge costituzionale n. 2 del 1963 a modificare gli artt. 56 e 57 della Costituzione fissando l’attuale numero dei deputati e dei senatori elettivi, che nella Costituzione del 1948 era stabilito in ragione di un deputato ogni ottantamila abitanti o frazione superiore a quarantamila e di un senatore ogni duecentomila abitanti o frazione superiore a centomila. Se si pensa che nel 1948 la popolazione italiana era di circa 46 milioni e nel 1963 di 51 milioni, il vero taglio dei parlamentari in relazione alla futura crescita della popolazione fu fatto dunque allora, poiché oggi abbiamo circa 60 milioni di abitanti. Quindi il fattore demografico ha già significativamente modificato quella soglia di rappresentatività delle assemblee parlamentari presupposta dai costituenti. Ma che l’ulteriore taglio dei parlamentari di oggi produca quegli effetti distorsivi sopra richiamati in tema di rappresentatività ed effettività del diritto di voto lo ha dimostrato il documento politico sottoscritto prima di tale votazione dai capigruppo della maggioranza governativa, nel quale si prevede di modificare la legge elettorale proprio per i vizi sopravvenuti dal Rosatellum, nonché, con una nuova legge costituzionale, l’elettorato attivo per il Senato, i rapporti governoparlamento in materia di sfiducia costruttiva, il procedimento legislativo e la rappresentanza regionale nell’elezione del Presidente della Repubblica, ma questo è solo un impegno politico chiaramente non coercibile e soprattutto un catalogo vastissimo di riforme costituzionali. Ed allora torneremo necessariamente al sistema proporzionale, poiché quello uninominale impone un numero molto più elevato di circoscrizioni, come insegna l’esempio del Regno Unito che ne prevede 650 per la Camera dei Comuni con una popolazione di circa 67 milioni di abitanti e nessuno si sogna di tagliarli. Questa evoluzione del sistema elettorale e costituzionale sarebbe positiva, ma rischia di non esserlo più in una situazione ove saranno necessari oltre 150 mila voti per eleggere un deputato e oltre 300 mila per eleggere un senatore. Comunque, perché la legge elettorale sia effettivamente adattata al taglio, sarebbe quanto meno necessario l’esercizio della delega già conferita al governo con l’art. 3 della legge 51 del 2019 per modificare entro ventiquattro mesi le circoscrizioni elettorali. Dunque, il delicatissimo equilibro tra rappresentatività e governabilità verrà profondamente alterato. Ne valeva la pena? Forse su ciò dovrebbe esprimersi lo stesso corpo elettorale. È quindi auspicabile che qualche forza politica di minoranza si faccia promotrice di un referendum confermativo ex art. 138 nei confronti della prossima legge costituzionale. Un blocco «repubblicano» di cinquecentomila elettori potrà così consentire al corpo elettorale di esprimersi su quella che è una vera e propria riforma costituzionale di struttura, come è già avvenuto nel 2006 e nel 2016.
Si tratta di una riforma all’apparenza utile, perché sembra obbedire all’imperativo, diffuso nell’opinione pubblica, di ridurre i costi della politica. Mentre è in realtà un’iniziativa pericolosa e dannosa