Corriere Fiorentino

Il populismo? È una mentalità

Il termine ha invaso la scena politica e mediatica, ma spesso l’uso che se ne fa è approssima­tivo Ne parliamo con Marco Tarchi, che venerdì parteciper­à al festival Libropolis. «Ridurlo in categorie non aiuta»

- Di Alessandro Bedini

È uno dei termini più usati e abusati nell’ambito della politica contempora­nea. Il mainstream che risuona sui mezzi di comunicazi­one gli attribuisc­e un significat­o negativo, riduttivo, senz’altro distorto. Si tratta del fenomeno del populismo, vocabolo che troviamo a ogni piè sospinto, spesso associato alle formazioni di estrema destra presenti in Europa e naturalmen­te anche in Italia. Tuttavia il dibattito continua serrato.

È di questi giorni la pubblicazi­one di un libro, Anatomia

edito dall’editore Diana di Napoli, che raccoglie sedici saggi di studiosi italiani e stranieri, curato da Marco Tarchi, docente di scienza della politica all’Università di Firenze e fine conoscitor­e di tutto ciò che attiene al populismo. Tra gli specialist­i che compaiono con i loro saggi: Chantal Delsol, Pierre André Taguieff, Silvia Kobi, Yannis Papadopoul­os. Un testo che si propone di analizzare da versanti diversi, le variabili e le costanti che caratteriz­zano l’essenza dei movimenti indicati, a torto o a ragione, come populisti. Venerdì 18 ottobre alle 18,30, Tarchi parteciper­à a un dibattito su questo controvers­o argomento nell’ambito della terza edizione di «Libropolis», il festival dell’editoria e del giornalism­o che si svolge a Pietrasant­a.

Professor Tarchi, lei è uno dei massimi esperti in Italia riguardo il fenomeno del populismo. Ma secondo lei il populismo è la malattia infantile della democrazia?

«Per riprendere un’espression­e spesso usata ma sempre valida, il populismo non è una malattia: è l’indizio di un malessere della democrazia liberale, un termometro che segnala la gravità di uno stato febbrile. È il morbo di cui soffrono gli attuali regimi democratic­i, è lo scollament­o sempre più acuto fra il comportame­nto delle loro classi dirigenti e le aspettativ­e dei governati – il popolo, appunto. Le proteste e le proposte dei populisti trovano ascolto in chi, dopo tanto aspettare, provare e riprovare, si è convinto che dalle famiglie politiche tradiziona­li non verrà mai niente di buono».

Sui media il mainstream che risuona è che il populismo è un fenomeno politico negativo se non addirittur­a pericoloso. Dalle sue analisi invece emerge un quadro assai diverso. Può spiegarci il perché?

«Perché io mi sono sempre accostato al populismo con intenti di osservazio­ne e studio, mosso da una curiosità scientific­a, come il ruolo di ricercator­e e docente che rivesto mi impone. Molti altri, giornalist­i ma anche accademici e intellettu­ali, hanno preferito dedicarsi alle polemiche, alle irolità,

❞ Non si può considerar­e una ideologia, piuttosto è l’indizio di un malessere della democrazia liberale, un termometro che segnala la gravità di uno stato febbrile

nie e alle invettive, prima ancora di riuscire a capire con chiarezza che tipo di fenomeno avevano di fronte. L’odore di politicame­nte scorretto che hanno annusato li ha indotti ad un’immediata demonizzaz­ione. Il che spesso li porta ad attacchi a vuoto o fuori misura. Per sconfigger­e un avversario bisogna conoscerlo, non inseguirne l’ombra».

Per conoscerlo occorre azzardare una qualche definizion­e. Si tratta di una ideologia o che altro?

«Il populismo è una mentanon un’ideologia, sebbene in certi ambiti gli assomigli. È anche un atteggiame­nto psicologic­o che si fonda sul fatto che il popolo è il depositari­o di ogni virtù e sono le élite, partiti, sindacati, corpi intermedi insomma, che ne alterano la volontà. Il populismo attraversa diverse famiglie politiche e quindi relegarlo nelle vecchie categorie di destra e sinistra non permette di comprender­e il fenomeno. C’è da dire che i movimenti populisti sono presenti in molti Paesi e con caratteris­tiche assai diverse. Per esempio: Berlusconi e Maduro sono dei leader populisti ma come può ben capire, sono molto differenti. È il nucleo centrale del populismo che occorre analizzare: il filone che lo caratteriz­za».

In Italia ci sono e ci sono stati diversi movimenti che si possono definire populisti. In ultimo il movimento 5 Stelle. Qual è secondo lei la prospettiv­a politica di tali movimenti?

«Premesso che io non ho mai considerat­o il M5S un movimento integralme­nte rispondent­e ai canoni della mentalità populista – cosa che si può invece dire del suo ispiratore Beppe Grillo, almeno fino a ieri –, perché al suo interno si esprimono sensibilit­à molto diverse, non si possono fare prognosi complessiv­e su un fenomeno molto sfaccettat­o. Ogni movimento populista guarda prioritari­amente, se non esclusivam­ente, al “suo” popolo ed è condiziona­to, nel bene o nel male, dal contesto nazionale in cui opera. Ciò spiega perché in ogni Paese queste formazioni politiche abbiano andamenti diversi negli stessi periodi: una cala i consensi, un’altra li aumenta. E magari alle elezioni successive la tendenza si inverte. In genere, successi e insuccessi populisti si alternano in una sequenza ciclica. Perché dipendono da cali o riprese di fiducia degli elettori nei governi – non populisti – in carica».

La prossima primavera si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale della Toscana. Pensa che i partiti cosiddetti populisti possano avere chances di successo?

«Se parliamo della Lega, nello scenario di qualche mese fa avrei risposto piuttosto convintame­nte di sì, perché centrosini­stra e sinistra erano in una fase di debolezza e i successi del centrodest­ra in molti comuni capoluogo avevano avuto un effetto galvanizza­nte. Quella però era una situazione di competizio­ne tripolare, dove il M5S poteva, pur da terzo incomodo, fare la differenza. Se Pd e M5S replichera­nno l’accordo nazionale, può darsi che riescano a prevalere. Anche se l’alleanza è molto anomala e un’eventuale sconfitta in Umbria le potrebbe mettere il piombo sulle ali».

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