Il populismo? È una mentalità
Il termine ha invaso la scena politica e mediatica, ma spesso l’uso che se ne fa è approssimativo Ne parliamo con Marco Tarchi, che venerdì parteciperà al festival Libropolis. «Ridurlo in categorie non aiuta»
È uno dei termini più usati e abusati nell’ambito della politica contemporanea. Il mainstream che risuona sui mezzi di comunicazione gli attribuisce un significato negativo, riduttivo, senz’altro distorto. Si tratta del fenomeno del populismo, vocabolo che troviamo a ogni piè sospinto, spesso associato alle formazioni di estrema destra presenti in Europa e naturalmente anche in Italia. Tuttavia il dibattito continua serrato.
È di questi giorni la pubblicazione di un libro, Anatomia
edito dall’editore Diana di Napoli, che raccoglie sedici saggi di studiosi italiani e stranieri, curato da Marco Tarchi, docente di scienza della politica all’Università di Firenze e fine conoscitore di tutto ciò che attiene al populismo. Tra gli specialisti che compaiono con i loro saggi: Chantal Delsol, Pierre André Taguieff, Silvia Kobi, Yannis Papadopoulos. Un testo che si propone di analizzare da versanti diversi, le variabili e le costanti che caratterizzano l’essenza dei movimenti indicati, a torto o a ragione, come populisti. Venerdì 18 ottobre alle 18,30, Tarchi parteciperà a un dibattito su questo controverso argomento nell’ambito della terza edizione di «Libropolis», il festival dell’editoria e del giornalismo che si svolge a Pietrasanta.
Professor Tarchi, lei è uno dei massimi esperti in Italia riguardo il fenomeno del populismo. Ma secondo lei il populismo è la malattia infantile della democrazia?
«Per riprendere un’espressione spesso usata ma sempre valida, il populismo non è una malattia: è l’indizio di un malessere della democrazia liberale, un termometro che segnala la gravità di uno stato febbrile. È il morbo di cui soffrono gli attuali regimi democratici, è lo scollamento sempre più acuto fra il comportamento delle loro classi dirigenti e le aspettative dei governati – il popolo, appunto. Le proteste e le proposte dei populisti trovano ascolto in chi, dopo tanto aspettare, provare e riprovare, si è convinto che dalle famiglie politiche tradizionali non verrà mai niente di buono».
Sui media il mainstream che risuona è che il populismo è un fenomeno politico negativo se non addirittura pericoloso. Dalle sue analisi invece emerge un quadro assai diverso. Può spiegarci il perché?
«Perché io mi sono sempre accostato al populismo con intenti di osservazione e studio, mosso da una curiosità scientifica, come il ruolo di ricercatore e docente che rivesto mi impone. Molti altri, giornalisti ma anche accademici e intellettuali, hanno preferito dedicarsi alle polemiche, alle irolità,
❞ Non si può considerare una ideologia, piuttosto è l’indizio di un malessere della democrazia liberale, un termometro che segnala la gravità di uno stato febbrile
nie e alle invettive, prima ancora di riuscire a capire con chiarezza che tipo di fenomeno avevano di fronte. L’odore di politicamente scorretto che hanno annusato li ha indotti ad un’immediata demonizzazione. Il che spesso li porta ad attacchi a vuoto o fuori misura. Per sconfiggere un avversario bisogna conoscerlo, non inseguirne l’ombra».
Per conoscerlo occorre azzardare una qualche definizione. Si tratta di una ideologia o che altro?
«Il populismo è una mentanon un’ideologia, sebbene in certi ambiti gli assomigli. È anche un atteggiamento psicologico che si fonda sul fatto che il popolo è il depositario di ogni virtù e sono le élite, partiti, sindacati, corpi intermedi insomma, che ne alterano la volontà. Il populismo attraversa diverse famiglie politiche e quindi relegarlo nelle vecchie categorie di destra e sinistra non permette di comprendere il fenomeno. C’è da dire che i movimenti populisti sono presenti in molti Paesi e con caratteristiche assai diverse. Per esempio: Berlusconi e Maduro sono dei leader populisti ma come può ben capire, sono molto differenti. È il nucleo centrale del populismo che occorre analizzare: il filone che lo caratterizza».
In Italia ci sono e ci sono stati diversi movimenti che si possono definire populisti. In ultimo il movimento 5 Stelle. Qual è secondo lei la prospettiva politica di tali movimenti?
«Premesso che io non ho mai considerato il M5S un movimento integralmente rispondente ai canoni della mentalità populista – cosa che si può invece dire del suo ispiratore Beppe Grillo, almeno fino a ieri –, perché al suo interno si esprimono sensibilità molto diverse, non si possono fare prognosi complessive su un fenomeno molto sfaccettato. Ogni movimento populista guarda prioritariamente, se non esclusivamente, al “suo” popolo ed è condizionato, nel bene o nel male, dal contesto nazionale in cui opera. Ciò spiega perché in ogni Paese queste formazioni politiche abbiano andamenti diversi negli stessi periodi: una cala i consensi, un’altra li aumenta. E magari alle elezioni successive la tendenza si inverte. In genere, successi e insuccessi populisti si alternano in una sequenza ciclica. Perché dipendono da cali o riprese di fiducia degli elettori nei governi – non populisti – in carica».
La prossima primavera si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale della Toscana. Pensa che i partiti cosiddetti populisti possano avere chances di successo?
«Se parliamo della Lega, nello scenario di qualche mese fa avrei risposto piuttosto convintamente di sì, perché centrosinistra e sinistra erano in una fase di debolezza e i successi del centrodestra in molti comuni capoluogo avevano avuto un effetto galvanizzante. Quella però era una situazione di competizione tripolare, dove il M5S poteva, pur da terzo incomodo, fare la differenza. Se Pd e M5S replicheranno l’accordo nazionale, può darsi che riescano a prevalere. Anche se l’alleanza è molto anomala e un’eventuale sconfitta in Umbria le potrebbe mettere il piombo sulle ali».