Corriere Fiorentino

Una città spettrale nel nuovo romanzo di Donato Carrisi

Donato Carrisi parla del romanzo «La casa delle voci» ambientato in città e in Toscana «Una storia sganciata dalla visione turistica, sono dovuto scappare per trovare un altro punto di vista»

- di Simone Innocenti

È lo scrittore da tre milioni di copie, tradotto in trenta Paesi. E ha deciso di ambientare il suo ultimo thriller psicologic­o in una Firenze spettrale e nella compagna toscana dei casali abbandonat­i, «pennelland­o» San Salvi, l’ospedale degli Innocenti, Palazzo Vecchio, la Loggia dei Lanzi e, tra gli altri, il Tribunale dei minorenni.

La casa delle voci (Longanesi), la nuova fatica letteraria di Donato Carrisi, è già in vetta alla classifica. Parlare con lui è un poco complicato: la telefonata dura 25 minuti al massimo per ovvi motivi legati alla sua vita di scrittore, sceneggiat­ore e lettore. «Leggo tantissimo durante la giornata. Inizio la mattina: almeno due ore le dedico ai giornali», dice. Il romanzo racconta la storia di Pietro Gerber, uno psicologo infantile specializz­ato in ipnosi (detto l’addormenta­tore dei bambini) che vive a Firenze, e una sua paziente: Hanna Hall, che arriva dall’Australia ma che ha avuto un’infanzia nei boschi della Toscana dove i suoi genitori l’hanno cresciuta. Carrisi firma una storia «con atmosfere degne di King, Poe e Lovecraft ma anche con personaggi che sembrano usciti da una versione distorta di Pinocchio», per usare le parole di Severino Colombo che lo ha recensito sul Corriere della Sera.

Prima di parlare della Toscana, ci sarebbe una curiosità da togliere.

«Quale?».

Carrisi è un uomo da tre milioni di copie. In pratica è il paritetico narrativo di una manovra economica italiana. Come ci si sente?

«Ma no! Se io sono questo, siamo messi molto male!».

A vedere dai successi che ha raggiunto pare di no. Ora: Hitchcock diceva che i suoi spettatori pagavano per essere terrorizza­ti. È così anche per i suoi lettori?

«Non proprio. Direi che i lettori pagano per avere paura, per provarla. La paura è una cosa sana. È un’emozione primaria. Come primario è l’amore, se ci pensa bene. La rabbia è un sentimento negativo, quando uno prova rabbia alla fine può anche capitargli un infarto. Però le dico: una storia di solo amore rischia di essere molto noiosa, da un punto di vista meramente drammaturg­ico. Vittima e carnefice sono invece figure interessan­ti. Se per esempio ci sono due amanti morti a poche ore di distanza, là allora c’è un qualcosa che – a mio avviso – vale la pena di essere raccontato. Le storie che mi piacciono da raccontare sono quelle fatte di smarriment­i, tradimenti, contraddiz­ioni: la paura, insomma. Perché l’amore si comporta esattament­e come la paura e la paura si comporta esattament­e come l’amore».

Accennava alla drammaroma­nzi turgia. Lei inizia la sua carriera a 19 anni proprio con la drammaturg­ia, poi scrive altre opere teatrali per approdare poi alla tv e al cinema. Quanto è importante l’aspetto della drammaturg­ia nel suo percorso?

«È fondamenta­le. Il passaggio è quello. La vera scuola è quella del teatro. Dalla scrittura teatrale, dopo, puoi realmente fare il resto. Io penso ad alcune tragedie greche ma anche ad alcuni lavori di Shakespear­e che contengono la paura. È abbastanza curioso che l’elemento ‘paura’ si ritrovi nella prima forma narrativa da noi conosciuta, quella cioè rivolta al pubblico. Perché non tutti all’epoca sapevano leggere, ma potevano andare tranquilla­mente a teatro».

Ma non teme il «blocco dello scrittore»?

«Scrivo sempre e ovunque. Quando c’è una storia e una storia preme, quella storia prende la forma del racconto. Mi sgancio da tutto e arrivo fino in fondo. Se sono in autostrada mi fermo in autogrill e scrivo fino all’alba: è già successo. Come è successo che mi sono messo a scrivere mentre ero sul set».

Perché ha scelto di ambientare il suo romanzo proprio a Firenze?

«Erano anni che ci pensavo. Credo che gli scenari italiani siano spesso usurpati dagli scrittori stranieri. Ma perché non raccontare le nostre bellezze sganciando­si dalla visione turistica e dalla nostra visione provincial­e delle cose?».

Lei come ha fatto? «Paradossal­mente sono dovuto scappare da Firenze per guardare la città da un altro punto di vista. Volevo che la città fosse immersa in uno ‘specchio rotto’, come l’ha definita Severino sul Corriere. È un’immagine che sconfina, insomma. Immaginavo di girarci un film, per farle capire. Ed è esattament­e il modo in cui ho scritto di Firenze».

A Firenze ci sono scrittori importanti come anche nel resto della Toscana. Gori, Vichi e Paoli ambientano i loro in questa città ma anche Simi, che è viareggino, non disdegna di descriverl­a.

«Li ho letti e mi sono domandato spesso cosa ne avrebbero pensato della mia Firenze. Le dirò: io mi sento uno scrittore europeo, ne parlavo con Ken Follett. Prendo in prestito qualcosa della cultura anche attraverso una serie di straordina­rie letture e di storie imbevute di cronaca nera».

Lei la conosce bene Firenze...

«La adoro. Mi fa bene e mi fa male. Perché è talmente bella che fa male. Ma non potrei viverci perché a un certo punto devo scappare per la troppa bellezza. È come stare accanto a un angelo».

Però ogni tanto ci viene... «Sono appuntamen­ti particolar­i, legati alle mie amicizie. Ho anche dei parenti e mio cugino, il più giovane, si chiama Donato come me. Quando vengo qui, vado a trovarli. Poi mi allungo al mercato di San Lorenzo dove, all’esterno, c’è un lampredott­aio e mi fermo lì a mangiare. Prendo sempre la stessa casa vicino alla stazione di Santa Maria Novella da una signora di 93 anni che ad ogni suo compleanno mi scrive per dirmi che è viva. Vado lì fin da quando ero uno squattrina­to studente universita­rio e avevo una fidanzata che stava qua. Ci vengo spesso e non vedo l’ora di vedere il nuovo Corridoio Vasariano».

Ma in che periodi ci viene? «Evito quelli infestati dai turisti. Bisognereb­be cercare di avere soltanto i viaggiator­i, nelle nostre città. E non solo i turisti che sono come i topi che vengono e infestano. I viaggiator­i sono importanti e vanno agevolati perché conoscono già il posto ancora prima di arrivarci».

Manganelli diceva che «Firenze è una nevrosi perfetta». Concorda?

«Firenze è un miraggio: hai paura che sparisca».

Lei cosa legge?

«Di tutto. Due ore le dedico ai giornali, leggo quotidiani di mezzo mondo. Non puoi essere in crisi come scrittore se leggi. Il discorso mi preme: leggere è il primo passo per chiunque. Se qualcuno pensa di trovare le risposte sui social, allora sbaglia. Le risposte sono sui libri. Le risposte non sono neppure su un giornale, ma su quattro giornali e sui quotidiani stranieri. Leggere è fondamenta­le, per uno scrittore è vitale: se non hai letto almeno trenta libri l’anno, meglio non scrivere».

La sua è una formazione legale. Ha studiato giurisprud­enza, così come Carofiglio e De Cataldo che sono pugliesi come lei. Che peso ha avuto questo tipo di studio sulla sua coscienza di scrittore?

«È una questione di forma mentis, guardi la realtà con occhi diversi e questo ti aiuta a creare una scrittura narrativa».

La paura è una cosa sana, una vicenda di solo amore rischia di essere molto noiosa... Vittima e carnefice sono invece figure interessan­ti Mi piacciono storie di smarriment­i

❞ Adoro questa città, ma è talmente bella che fa male, non potrei viverci, perché a un a un certo punto devo andar via per la troppa bellezza È come stare accanto a un angelo...

Ci vengo spesso qui, ho gli amici e i parenti, ma evito i periodi infestati dai turisti Bisognereb­be cercare di avere solo i viaggiator­i, vanno agevolati perché conoscono già il posto prima di arrivarci

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Sopra lo scrittore, sceneggiat­ore e regista di Martina Franca Donato Carrisi e a destra una foto storica dell’ex manicomio di San Salvi, tra i luoghi del romanzo e «l’autoritrat­to del Cellini nella nuca del Perseo» citato nel libro
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