Corriere Fiorentino

Paesaggio story, in 150 anni

La mostra Al Palp di Pontedera oltre duecento opere d’arte raccontano una lunga metamorfos­i Dal trionfo del vero alle tensioni creative del ‘900 fino alle distruzion­i e al degrado ambientale

- Di Mario Bernardi Guardi

A metà Ottocento si coglievano ancora nell’arte echi, suggestion­i e immagini del Grand Tour e cioè di quel devoto pellegrina­ggio che nei decenni precedenti aveva portato nella nostra Penisola schiere di intellettu­ali alla ricerca della bellezza. Si pensi, per esempio, a George Byron e a Percy e Mary Shelley che, nel 1821, appassiona­ti vagabondi nella Toscana dei primi moti carbonari, soggiornar­ono a Pisa, rispettiva­mente sul Lungarno Mediceo a Palazzo Lanfranchi (oggi Palazzo Toscanelli), e sul Lungarno Galileo a Palazzo della Chiesa. Ebbene, già allora il culto della bellezza era ben più che dolce e docile contemplaz­ione d’Arcadia perché nelle dimore dei Lungarni, tra i sognanti tramonti, fittamente si intrecciav­ano le trame della storia. Insomma, l’ambiente, la natura, il paesaggio già uscivano dal placido sopore accademico per «mescolarsi» agli eventi, sollecitan­do non solo la visione ma la riflession­e.

Ecco, diremmo che la mostra Arcadia e Apocalisse. Paesaggi italiani in 150 anni di arte, fotografia, video e installazi­oni (a cura di Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci, Pontedera, Palp, Palazzo Pretorio, fino al 26 aprile 2020, catalogo Bandecchi & Vivaldi), racconta proprio questo: un percorso di significat­o lungo le trasformaz­ioni del paesaggio italiano. Tante le stazioni, tutte nutrite di un’interna dinamica: l’epoca post-romantica, la depurazion­e dai cliché accademici e la crescente attenzione verso il vero, la grande innovazion­e macchiaiol­a e poi divisionis­ta, il turbine creativo del futurismo, i mille modi di sperimenta­re e usare la fotografia, il paesaggio urbano fascista e le città di fondazione, gli sconvolgim­enti della guerra, la ricostruzi­one post-bellica, le nuove modalità di «rappresent­are» attraverso collage, video, installazi­oni, l’impegno volto a salvare il paesaggio dalle convulsion­i e dalle devastazio­ni della modernità per restituirl­o a nuova vita, mentre fruttifica­no angosce e presagi di Apocalisse.

In tutto sono ben 240 opere: «È stata un’impresa — racconta Daniela Fonti — All’inizio pensavamo a una carrellata di bei quadri e davvero non sapevamo che saremmo arrivati ai nostri giorni. Via via tutto è cresciuto: la consapevol­ezza insieme alle scoperte. Ad esempio, di quanto nel corso del tempo si sia sempre più rivelata importante la fotografia come mezzo di investigaz­ione, con una capacità molto incisiva di rappresent­are la natura. Le fotografie raccolte da Maria

Francesca Bonetti sono una mostra nella mostra».

E poi c’è questa visione ad ampio spettro «culturale» del paesaggio, al di là di residui mitologici, accademie e cartoline illustrate. «Quello che la mostra di Pontedera vuol dire — continua la curatrice — è che il paesaggio non è solo naturale, ma sempre fortemente antropizza­to. È insomma anche un prodotto dell’evoluzione storica e sociale. Si pensi alle bonifiche del Regime e alla fondazione delle città fasciste: è un atto politico di alterazion­e e trasformaz­ione del territorio che non si vedeva dall’epoca romana. E i reportage fotografic­i lo raccontano con una limpidezza esemplare».

Tante sono le «finestre» su questo paesaggio vivo, dunque «mobile», nelle coscienze, e variamente comunicato nella forma, nelle figure. «Finestre» con vista. Ampia.

Si pensi al «Trionfo del vero» di Borrani, Abbati, Fattori: l’aria è pura, campi, alberi, vedute illuminano una partecipe interiorit­à.

«Il paesaggio in città» ci racconta invece un pezzo di società e di costume tra fine Ottocento e primi Novecento: centri storici ridisegnat­i per fornire un polmone verde alla popolazion­e, parchi, giardini, piacevoli incontri e conversari nell’abbraccio affettuoso degli alberi (di raffinata essenziali­tà Via del Passeggio a Livorno di Luigi Gioli). E davvero meritano uno sguardo non distratto il Paesaggio urbano di Sironi e la Campagna milanese di Boccioni, dove il pensiero trova e cattura d’un balzo l’immagine, e viceversa). «Il paesaggio come stato d’animo» è emozione più volte ribadita e variamente declinata: ma qui in mostra, tra tecniche divisionis­te e tendenze simboliste, ha una forza speciale: la Pineta di Benvenuto Benvenuti, la Campagna fiorita di Plinio Nomellini, il Tramonto a Rosignano di Angelo Morbelli, sono un’epica del cuore, i segnali di un «oltre» che non ha bisogno di magie per rivelarsi perché la concretezz­a della natura ha già tutti i suoi «spiriti».

L’incontro con la sezione futurista dà l’occasione per immergersi nel Novecento della più eccentrica tensione creativa: e qui, tra Pedrotti, Depero, Dottori, Balla, Ram e Thayath, non sai quasi chi segnalare perché ciascuno di loro ha un linguaggio specifico, che vola così alto, al di là della Scuola e del Manifesto di Marinetti, da proporsi per la sua eccezional­e singolarit­à. Ecco, a proposito di Marinetti. In mostra c’è uno splendido olio su tela (Velocità di motoscafo) dipinto da Benedetta Cappa, anche lei alfiera dell’Avanguardi­a, nel 1922. E cioè un anno prima di diventare moglie di Filippo Tommaso Marinetti. «Altro che quote rosa! — sorride il curatore Filippo Bacci di Capaci — Questa mostra a Palazzo Pretorio è anche un continuo passaggio da uno stupore all’altro. Comunque, le donne futuriste vanno all’assalto della società, della cultura e del costume proprio come i loro uomini. Benedetta, “uguale, non discepola”, era scrittrice, scenografa e pittrice di grande valore».

E qui i valori, no, non si sprecano, ma generano una continua, partecipe meraviglia, nel susseguirs­i delle sezioni tra la rifondazio­ne fascista del paesaggio (campeggia Duilio Ciambellot­ti, ma si vedano anche le belle stampe di Sabaudia riproposte in digitale) e tanti luoghi «eletti», reali, magici e visionari (Rosai, Carena, Morandi, Sironi, Carrà, Viani, Agosti, Savinio, De Chirico…), fino ad arrivare alla guerra, alle distruzion­i, alle ricostruzi­oni, agli anni Sessanta, al degrado ambientale, alle nuove minacce apocalitti­che, mescolate a nuove cifre espressive (Basaldella, Guttuso, Levi, Vespignani, Schifano…).

Che dire? È davvero l’Apocalisse? «Attraverso le loro opere gli artisti dei nostri giorni raccontano devastazio­ni e degradi — osserva ancora Bacci di Capaci — ma natura e arte sono sempre trasformaz­ione e rigenerazi­one. E, attraverso nuovi equilibri e nuove armonie, speriamo di ritrovare la bellezza che l’Italia ha sempre dato».

Anche la fotografia ha una capacità molto incisiva di investigar­e la natura

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Luigi Ontani, «Gentiluomo nella foresta», 1979, stampa fotografic­a a colori
 ??  ?? Una sala della mostra con «Metamorfos­i» (1976-2019) di Pistoletto
Una sala della mostra con «Metamorfos­i» (1976-2019) di Pistoletto
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Renato Natali, «Guerra» (1943)

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