Nel rifugio di Namsal, l’alchimista
L’atelier dell’artista vincitore del Premio Cairo a Seggiano. «Il posto migliore per me»
Il rifugio di Namsal Siedlecki, classe 1986, si trova in Toscana, sul crinale grossetano del monte Amiata. Un atelier nelle campagne di Seggiano contornato da campi arati, ulivi, querce e cipressi; entrandovi si ha l’impressione di accedere a una dimensione atemporale, dove trovano senso compiuto arnesi indecifrabili e sculture destinate a mostre in giro per il mondo (prossime: Nepal, Stati Uniti, Cambogia). «È in questo luogo — racconta — che le idee prendono forma e mutano in sculture». E tra le sculture colpisce Teste, che di recente ha vinto il XX Premio Cairo: «È lo stampo di una testa sacrificale rinvenuta in una sorgente votiva a Clermont-Ferrand, in Francia, rimasta sommersa per duemila anni, assieme a sculture di busti, braccia e mani: ex voto risalenti al 50 a.C. e gettati dai Galli come ringraziamento per le grazie ricevute». Manufatti, scolpiti dall’uomo e dai secoli, giunti a Namsal dopo un accordo con il Museo Bargoin di ClermontFerrand. «L’opera è stata concepita utilizzando stampante 3D, calco in gomma siliconica e un processo di trasformazione in vasca galvanica, dove, sulla testa, si forma uno strato di rame spesso tre millimetri ricavato dalle monetine della fontana di Trevi». Un forte senso devozionale (ex voto) e di speranza (monetine nella fontana) uniti in una sola opera. L’arte di Namsal, sintesi tra antiche tecniche di lavorazione e tecnologia avanzata, unisce elementi organici, come verdura, a elementi eterni (metallo), e vita e morte sembrano dialogare in un abbraccio allegorico: «Un esempio — spiega — è il nerbo del Palio di Siena, ricavato dal pene del toro, con la materia organica che, non potendo accedere all’ossigeno, viene intrappolata per sempre nel metallo, creando un sarcofago verso il futuro». Le sculture, che in questo contesto sembrano riposare dalle sfiancanti trasferte internazionali, si mapelle nifestano ora appese al muro ora adagiate al pavimento: c’è un otre di capra, usato dai popoli primitivi per il trasporto di liquidi e realizzato in vetroresina: «Il concetto è quello di trasportare l’acqua, elemento indispensabile alla vita, all’interno di un cadavere»; ci sono due cubi dorati forgiati fondendo insieme cinquemila monete da cinque Yen, poi un cappello di di fungo (!) non dissimile al camoscio, una tela-sudario in pelle monocromatica, e, unica concessione alla pittura, un dipinto creato da un maiale texano: «l’autore — spiega — è molto conosciuto e si chiama Pablo PigCasso (tutto vero, cercare su Google)». Le sue opere sono particolarmente apprezzate in Asia e nel mondo anglosassone, ma la storia dello scultore toscano (di origini polacche e statunitensi) è legata a doppio nodo con la nostra terra: dagli studi iniziali all’Accademia di Belle Arti di Carrara, a fianco del maestro Piergiorgio Balocchi, ai frequenti passaggi da Firenze, dove si reca spesso per finalizzare i lavori. Lo scorso novembre il premio. «Impiegherò i soldi per creare uno studio più grande e per organizzare le prossime mostre (compresa quella al Palazzo del Re di Kathmandu)». Ma come si diventa artisti quotati partendo da un caseggiato sul monte Amiata? «Non siamo a Londra — ammette — e nemmeno a San Francisco, e bisogna spostarsi continuamente, ma si sta benissimo, per la mia arte, per mia moglie, per i miei due figli, non potrebbe esistere un posto migliore».