Biblioteca Nazionale, la mostra sugli scritti dei deportati italiani
Domani alla Biblioteca Nazionale sarà inaugurata una mostra curata da Marta Baiardi. Propone «gli scritti della deportazione italiana»: parole che descrivono l’orrore
Chi è stato in un campo di prigionia o di concentramento ha un solo desiderio, sopravvivere e tornare a casa. E quando riesce a tornare, spesso per circostanze fortunate, vuole vivere una vita normale, a partire dal piacere del cibo, sognato nella fame della sua prigionia. All’odissea del ritorno si aggiunge la diffidenza dei concittadini verso il «mondo fuori dal mondo» degli ex-deportati, che faticano a ritrovare lo spazio di una vita normale, siano essi prigionieri di guerra o vittime, come gli ebrei, della politica di sterminio condotta dal nazismo e dal fascismo. Anche per questo molti dopo la guerra si misero a scrivere. Per fissare una volta per tutte nella memoria le vicende di straordinaria disumanità che avevano vissuto.
Tornare, Mangiare, Raccontare. I primi scritti della deportazione Italiana 19441947 è il titolo della mostra curata da Marta Baiardi che si inaugura domani alle 17 nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Titolo bello ed efficace, che coglie il senso del dramma materiale e morale dei sopravvissuti, che si misero a scrivere, anche se a volte con scarsi strumenti, — annota la curatrice — «per liberarsi dall’angoscia, per mettere insieme le parti di sé spezzate da un’esperienza disumanizzante, per commemorare i tanti compagni morti, per esecrare il nazifascismo e contrastare il negazionismo dei carnefici già attivo nei lager». Se non avessero scritto le loro memorie, in gran parte pubblicate in forma semi-clandestina, non avremmo oggi alcun ricordo di quanto è accaduto. Sappiamo che anche per Primo Levi fu difficile pubblicare Se questo è un uomo, che iniziò a comporre durante la prigionia, nel laboratorio chimico del campo di Buna-Monowitz (Auschwitz III) e pubblicò, dopo diversi rifiuti, nel 1947 per la piccola casa editrice torinese De Silva diretta dall’intellettuale antifascista Franco Antonicelli. Delle 2500 copie stampate di questa edizione se ne vendettero solo 1500, soprattutto a Torino. Una copia è esposta nella mostra con dedica autografa di Antonicelli, datata 28 ottobre 1947, all’amico, critico musicale e antifascista Massimo Mila, con il perentorio imperativo: «Parlane!».
Mila scrisse un insolito ritratto di Primo Levi scrittore su La Stampa del 12 aprile 1987, il giorno dopo la sua scomparsa: «Parrà una enormità, ma se mi chiedessero di definire con una parola lo scrittore, direi che era un umorista». E certo si riferiva ad alcuni suoi racconti comici. Su Se questo è un uomo intervenne, tra i pochi, il 6 maggio 1948 su L’Unità. Italo Calvino, cogliendone subito il valore: «non è solo una testimonianza efficacissima, ma ha delle pagine di autentica potenza narrativa, che rimarranno nella nostra memoria tra le più belle della letteratura sulla seconda guerra mondiale».
Soltanto nel 1958 Einaudi ristampò il libro, oggi unanimamente considerato una delle opere più significative sullo sterminio degli ebrei, per la precisione «scientifica» della testimonianza e per la levatura letteraria. «Era talmente forte in noi il bisogno di raccontare — ricorda Primo Levi — che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita».
Da queste insopprimibili esigenze di memoria trae origine la mostra, che presenta volumi e opuscoli della deportazione politica e razziale italiana, pubblicati tra il 1944 e il 1947. Attraverso testi così poco considerati in quegli anni la Biblioteca nazionale centrale di Firenze e l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea fanno toccare con mano il muro di indifferenza contro il quale cozzarono, al loro ritorno, i deportati sopravvissuti.
Apre la mostra Otto ebrei dello scrittore e saggista di origine ebraica Giacomo Debenedetti, scritto nel settembre 1944 e pubblicato lo stesso anno in appendice a Lettera a Hitler di Louis Golding. L’opuscolo ricostruisce la vicenda della compilazione degli elenchi delle vittime da fucilare alle Fosse Ardeatine. Si tratta di otto ebrei cancellati dalla lista di coloro che dovevano essere fucilati dal commissario di p.s. Raffaele Alianello, che agì, scrive Marta Baiardi, «per la furbesca necessità di procurarsi crediti positivi nella nuova Italia emersa dalla sconfitta del nazifascismo». La denuncia di Debenedetti per l’ipocrisia camaleontica, sempre riemergente nella società italiana, ben si collega al suo più noto 16 ottobre 1943. Si tratta di un classico della letteratura post-clandestina, pubblicato per la prima volta nel dicembre 1944, che racconta la retata nazista nel Ghetto di Roma, conclusasi, questa sì, con la deportazione, in gran parte senza ritorno, di mille ebrei. Fin dal libro di apertura la mostra propone così «un modo onesto (e aggiungerei coraggioso) di fare i conti con questo difficile passato al di là di ogni retorica celebrativa».
❞ Sono pensieri messi su carta per liberarsi dall’angoscia e per mettere insieme le parti di sé spezzate