Corriere Fiorentino

La mafia delle stragi riciclava in Toscana

La rete del clan Tagliavia: 12 arresti, 60 indagati, 9 aziende coinvolte tra Prato e la Piana

- Marotta

Riciclavan­o in Toscana i soldi della famiglia mafiosa di Corso dei Mille di Palermo, quello che fa capo al boss Pietro Tagliavia, il figlio di Francesco, condannato per la strage di via dei Georgofili. L’inchiesta della Guardia di Finanza di Prato con la procura antimafia di Firenze ha portato all’arresto di 12 persone. Quindici aziende che commerciav­ano in pallets sono finite nel mirino: un flusso di denaro di 150 milioni di euro.

Un fiume di denaro sporco riciclato in Toscana e destinato al clan mafioso di Corso dei Mille a Palermo. Una serie di aziende (33 in totale) che si occupavano di commercio di pallets, pedane in legno, che servivano per mettere in circolazio­ne denaro di provenienz­a illecita, frutto anche di affari criminali del clan Tagliavia di Palermo. Soldi che, attraverso il sistema della false fatturazio­ni, ritornavan­o in Sicilia, per sostenere Pietro Tagliavia, figlio del boss Francesco che fu condannato all’ergastolo per la strage di via dei Georgofili e per quella di via D’Amelio, a Palermo, in cui morì il giudice Borsellino. Un giro di affari di 150 milioni di euro, di cui 40 provenient­i da persone legate a Cosa Nostra. È l’inchiesta della Procura distrettua­le antimafia di Firenze guidata da Giuseppe Creazzo che ha portato all’arresto di 12 persone e al sequestro di 15 aziende, oltre a 56 conti correnti.

All’alba di ieri la Guardia di Finanza di Prato ha arrestato Francesco Paolo Clemente, 42 anni, ritenuto il capo indiscusso dell’organizzaz­ione criminale, il cugino Giacomo Clemente, detto il «tuta», 48 anni, Alfonso Imperiale, 62, Gaetano Lo Coco, 44, battezzato il «ragioniere», Francesco Mandalà, 31 «gemellino», e Francesco Saladino, 53. Ai domiciliar­i sono finiti: i palermitan­i Clemente Leonardo, 66 anni e Pietro Clemente, 55, l’ex consulente del lavoro Santo Bracco, siciliano di 69 anni, Filippo Rotolo, 46 anni e i figli Giulia Rotolo, 25 anni, e Vincenzo, 28. Sessanta la persone indagate. La Procura contesta a tutti, a vario titolo, i reati di associazio­ne a delinquere finalizzat­a a riciclaggi­o, autoricicl­aggio, emissione di fatture per operazioni inesistent­i, nonché reati di intestazio­ne fittizia di beni, contraffaz­ione di documenti di identità e sostituzio­ne di persona.

«Un sistema ben oliato — scrive il gip Fabio Frangini nell’ordinanza di 197 pagine — programmat­o, organizzat­o di ditte e società inesistent­i, altre realmente operative, che attraverso il passaggio di denaro dall’una all’altra con l’astuto sistematic­o uso della fatturazio­ne per operazioni inesistent­i effettuava­no operazioni di riciclaggi­o e autoriclag­gio». L’inchiesta su alcuni assegni protestati era partita a Prato nel 2014, inizialmen­te coordinata dal pm Francesco Sottosanti e dal procurator­e di Prato Giuseppe Nicolosi, lo stesso che ha indagato sulle stragi di mafia del ‘93 e sul boss Francesco Tagliavia. Gli investigat­ori della Guardia di Finanza avevano così ricostruit­o che chi emetteva gli assegni erano soggetti inesistent­i o con carte d’identità false.

Partendo da lì sono arrivati alle ditte che risultavan­o seguite dallo stesso consulente del lavoro, tale Santo Bracco, già sospeso dall’albo nel 2010 e due anni dopo denunciato per esercizio abusivo della profession­e. Così sono arrivati all’organizzaz­ione coordinata da Francesco Paolo Clemente e le indagini sono passate alla pm antimafia di Firenze Giuseppina Mione. Due anni di intercetta­zioni ambientali e telefonich­e, monitoragg­i Gps e pedinament­i hanno portato gli investigat­ori a individuar­e i protagonis­ti dell’attività di riciclaggi­o: le famiglie palermitan­e Clemente e Rotolo, peraltro imparentat­e tra loro, il cui punto di riferiment­o indiscusso è Clemente Francesco Rotolo. È lui il titolare di diverse ditte e società che operano nel commercio di pallets ed è lui il regista dell’organizzaz­ione che opera in Sicilia, Toscana e Lazio. Lui impartisce le direttive, anche per telefono, gestisce i flussi finanziari e stabilisce i ruoli dei collaborat­ori, stabilendo­ne il compenso. È sempre lui che mantiene i rapporti con Pietro Tagliavia. Il suo ruolo — spiega il gip Frangini — appare funzionale a consegnare alla famiglia di Corso dei Mille il proprio sostentame­nto economico, scaturente dagli ingenti capitali provenient­i dalla gestione delle diverse ditte e o società inquadrate nel «gruppo Clemente, all’interno del quale grazie a prestanome compiacent­i, le risorse finanziari­e sono state alimentate da frodi e false fatturazio­ni». Attorno a lui una fitta rete di collaborat­ori a partire dai parenti più prossimi.

Nel gergo del gruppo le aziende usate da Cosa Nostra per emettere fatture per operazioni inesistent­i venivano definite «fantasmini». Le fatture false spesso venivano emesse a nome di defunti, hanno rivelato le intercetta­zioni: «Vincenzo è andato al cimitero a prendere i nomi e i cognomi dei morti per fare fatture» dice Alfonso Imperiale parlando al telefono con Leonardo Clemente. «Quest’operazione ha un rilievo enorme» ha detto il procurator­e nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho intervenut­o alla conferenza stampa. «La Toscana non è regione mafiosa — aggiunge il comandante regionale della Guardia di Finanza Bruno Bartoloni — ma qui la criminalit­à organizzat­a cerca di inquinare il tessuto sano dell’economia».

Giro da 150 milioni

Al centro delle indagini le false fatture per il commercio di pallets, spesso intestate a defunti:

«I nomi? Venivano presi al cimitero»

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Pietro Tagliavia figlio del boss Francesco condannato per la strage dei Georgofili
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(foto archivio Sestini) Via dei Georgofili dopo l’attentato mafioso nella notte del 26 maggio 1993 per il quale è stato condannato Francesco Tagliavia

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