Corriere Fiorentino

PRESCRIZIO­NE, DUE IDEE PER ROMPERE IL MURO

- Di Alessandro Crini*

❞Il tema della prescrizio­ne appartiene a quello che i giuristi chiamano il diritto sostanzial­e; cioè il diritto che coinvolge i principi. Come quando si decide, per esempio, che un certo comportame­nto, che fino a quel momento non è stato considerat­o reato, lo debba diventare.

Di queste cose devono certamente occuparsi i tecnici e gli accademici, ma poi è il Parlamento, nella sua sovranità, che deve deciderle. Nel caso della prescrizio­ne il principio, connaturat­o all’idea stessa di giustizia umana, è che una vicenda penale non possa rimanere perennemen­te aperta. Esso già nasce attenuato, in verità, visto che, per reati gravissimi come l’omicidio o la strage, non lo si applica: qui la pretesa punitiva dello Stato non può mai venir meno e quei reati sono, dunque, imprescrit­tibili. Tuttavia, come il serrato dibattito di queste ore si incarica di dimostrare, il tema è anche strettamen­te procedural­e; appartiene cioè, al processo, alle sue regole e ai suoi tempi. E passare dai principi alla procedura è un po’ come il trasferirs­i dal dover essere all’essere, dalla teoria alla pratica, dal diritto alla sociologia. Perché la procedura è fatta non solo di termini da osservare e di garanzie da rispettare, ma anche di piante organiche nettamente insufficie­nti, almeno in larga parte d’Italia, di personale anziano ormai provato, di pensionati che se ne vanno senza previsione di ricambio, e così via lamentando. È in questo mondo reale che si cala il dibattito sulla prescrizio­ne. E che sbanda, in un campo non sufficient­emente attrezzato, tra due estremi: da un lato l’affidarsi all’idea che una volta pervenuti, nel pieno rispetto di regole e garanzie, ad una sentenza di condanna di primo grado, la prescrizio­ne possa restare definitiva­mente sospesa, sul presuppost­o che, a quel punto, almeno di regola, è il condannato a chiedere allo Stato una seconda decisione, laddove invece quest’ultimo ha già esercitato, nell’interesse della collettivi­tà, la propria pretesa punitiva; dall’altro lato l’affermare come pregiudizi­ale ed indefettib­ile il principio secondo cui, pur da condannati in primo grado, non si possa comunque rimanere legati, senza un termine precostitu­ito, al prosieguo del giudizio. Nel rispetto del sovrano principio della presunzion­e di innocenza fino a condanna passata in giudicato. Tra i due estremi, certamente, il secondo si fa preferire, sul piano della forza dell’argomento: nella consideraz­ione che in questa materia, salvo rigide eccezioni, niente può essere per sempre. Senonché, data preferenza ad un concetto, in sé, anche piuttosto ovvio, se ne vengono in realtà a trarre conseguenz­e non proprio rassicuran­ti. La prima: non è affatto una provocazio­ne quello che si dice da più parti circa l’immanenza del rischio prescrizio­ne per intere categorie di reati; anche al netto delle disfunzion­i degli Uffici e delle carenze d’organico. È un fatto. Le truffe, per esempio; una piaga endemica del nostro tempo. Partendo dalla consideraz­ione che chi orchestra un raggiro prende di regola le giuste contromisu­re per evitare che la scoperta del reato, da parte della vittima, sia immediata, è normale che l’imbroglio venga inquadrato a scoppio ritardato: e difatti è da lì che decorre il breve termine per proporre querela; ma la prescrizio­ne no, quella decorre dal momento della commission­e del reato, con conseguenz­e che è facile intendere. La seconda, corollario della prima: è corretto che un truffato debba rassegnars­i alla probabile impunità del suo truffatore, per tale già riconosciu­to in una sentenza, per il solo fatto del decorso di un certo tempo? La terza: è opportuno che lo Stato sprechi ingenti risorse per arrivare a nulla? Insomma, se c’è ingiustizi­a nel non porre un termine alla pretesa punitiva dello Stato, non mi pare neppure sia giusto privare la vittima, almeno di taluni reati, e in generale la collettivi­tà, di adeguata tutela e soddisfazi­one; solo perché il termine a disposizio­ne per una condanna definitiva risulta troppo breve. Che fare? Due cose, direi. La prima: ripensare i termini prescrizio­nali, quasi dimezzati nel 2005, rispetto alla misura originaria, senza uno spiegabile motivo. La seconda: conferire alla sentenza di primo grado, resa al termine di un dibattimen­to tendenzial­mente completo, con prove che lì si sono formate, la dignità che essa merita. Individuan­do, a seguire, termini prescrizio­nali di fase, per i gradi successivi, ovviamente nell’ambito del termine massimo di prescrizio­ne che non potrà, in nessun caso, essere ridotto. Idee. Altre ve ne possono essere. Sul presuppost­o, tuttavia, del rispetto dei rilevanti valori, giuridici e sociali, che la prescrizio­ne dei reati mette in gioco.

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