PRESCRIZIONE, DUE IDEE PER ROMPERE IL MURO
❞Il tema della prescrizione appartiene a quello che i giuristi chiamano il diritto sostanziale; cioè il diritto che coinvolge i principi. Come quando si decide, per esempio, che un certo comportamento, che fino a quel momento non è stato considerato reato, lo debba diventare.
Di queste cose devono certamente occuparsi i tecnici e gli accademici, ma poi è il Parlamento, nella sua sovranità, che deve deciderle. Nel caso della prescrizione il principio, connaturato all’idea stessa di giustizia umana, è che una vicenda penale non possa rimanere perennemente aperta. Esso già nasce attenuato, in verità, visto che, per reati gravissimi come l’omicidio o la strage, non lo si applica: qui la pretesa punitiva dello Stato non può mai venir meno e quei reati sono, dunque, imprescrittibili. Tuttavia, come il serrato dibattito di queste ore si incarica di dimostrare, il tema è anche strettamente procedurale; appartiene cioè, al processo, alle sue regole e ai suoi tempi. E passare dai principi alla procedura è un po’ come il trasferirsi dal dover essere all’essere, dalla teoria alla pratica, dal diritto alla sociologia. Perché la procedura è fatta non solo di termini da osservare e di garanzie da rispettare, ma anche di piante organiche nettamente insufficienti, almeno in larga parte d’Italia, di personale anziano ormai provato, di pensionati che se ne vanno senza previsione di ricambio, e così via lamentando. È in questo mondo reale che si cala il dibattito sulla prescrizione. E che sbanda, in un campo non sufficientemente attrezzato, tra due estremi: da un lato l’affidarsi all’idea che una volta pervenuti, nel pieno rispetto di regole e garanzie, ad una sentenza di condanna di primo grado, la prescrizione possa restare definitivamente sospesa, sul presupposto che, a quel punto, almeno di regola, è il condannato a chiedere allo Stato una seconda decisione, laddove invece quest’ultimo ha già esercitato, nell’interesse della collettività, la propria pretesa punitiva; dall’altro lato l’affermare come pregiudiziale ed indefettibile il principio secondo cui, pur da condannati in primo grado, non si possa comunque rimanere legati, senza un termine precostituito, al prosieguo del giudizio. Nel rispetto del sovrano principio della presunzione di innocenza fino a condanna passata in giudicato. Tra i due estremi, certamente, il secondo si fa preferire, sul piano della forza dell’argomento: nella considerazione che in questa materia, salvo rigide eccezioni, niente può essere per sempre. Senonché, data preferenza ad un concetto, in sé, anche piuttosto ovvio, se ne vengono in realtà a trarre conseguenze non proprio rassicuranti. La prima: non è affatto una provocazione quello che si dice da più parti circa l’immanenza del rischio prescrizione per intere categorie di reati; anche al netto delle disfunzioni degli Uffici e delle carenze d’organico. È un fatto. Le truffe, per esempio; una piaga endemica del nostro tempo. Partendo dalla considerazione che chi orchestra un raggiro prende di regola le giuste contromisure per evitare che la scoperta del reato, da parte della vittima, sia immediata, è normale che l’imbroglio venga inquadrato a scoppio ritardato: e difatti è da lì che decorre il breve termine per proporre querela; ma la prescrizione no, quella decorre dal momento della commissione del reato, con conseguenze che è facile intendere. La seconda, corollario della prima: è corretto che un truffato debba rassegnarsi alla probabile impunità del suo truffatore, per tale già riconosciuto in una sentenza, per il solo fatto del decorso di un certo tempo? La terza: è opportuno che lo Stato sprechi ingenti risorse per arrivare a nulla? Insomma, se c’è ingiustizia nel non porre un termine alla pretesa punitiva dello Stato, non mi pare neppure sia giusto privare la vittima, almeno di taluni reati, e in generale la collettività, di adeguata tutela e soddisfazione; solo perché il termine a disposizione per una condanna definitiva risulta troppo breve. Che fare? Due cose, direi. La prima: ripensare i termini prescrizionali, quasi dimezzati nel 2005, rispetto alla misura originaria, senza uno spiegabile motivo. La seconda: conferire alla sentenza di primo grado, resa al termine di un dibattimento tendenzialmente completo, con prove che lì si sono formate, la dignità che essa merita. Individuando, a seguire, termini prescrizionali di fase, per i gradi successivi, ovviamente nell’ambito del termine massimo di prescrizione che non potrà, in nessun caso, essere ridotto. Idee. Altre ve ne possono essere. Sul presupposto, tuttavia, del rispetto dei rilevanti valori, giuridici e sociali, che la prescrizione dei reati mette in gioco.