EVITIAMO IL PANICO, E LA FACILONERIA
❞ C’è un dibattito in corso: si tratta di scegliere una posizione fra allarmismo e rassicurazione. Perché mai dovremmo? Di fronte ad un problema, occorre rimanere centrati sull’oggetto della discussione.
Non esiste un modo diverso di risolverlo. La ragione dell’altalena fra sentimenti di panico e proclami rassicuranti è ovvia. L’allarmismo ha fatto e fa male all’economia. Le borse vacillano, molte imprese sono in difficoltà. Ecco allora fioccare i proclami degli esperti: saremmo dinanzi a poco più di una semplice influenza, ma il popolo bue si è fatto prendere dal panico.
L’economia è una parte importante della società civile contemporanea. Tuttavia, non si possono ignorare i bisogni sanitari in ossequio alla salute della borsa nazionale. Lasciamo quindi stare politica e economia, e parliamo di esseri umani, perché, personalmente, non riesco a immaginare un argomento più importante.
Le scienze biomediche, nell’emergenza in atto, hanno dimostrato una volta di più il loro valore. Sappiamo già molto sul nuovo virus dal punto di vista genetico, biochimico, epidemiologico. Abbiamo protocolli chiari, linee guida. Possiamo agire. Dobbiamo farlo. Tuttavia, ciò non significa che siamo pronti. Il rischio maggiore è costituito dalle dimensioni potenziali del contagio. In presenza di un numero atipicamente alto di casi gravi, infatti, potrebbero verificarsi problemi per le strutture di assistenza, non tarate per un’affluenza massiccia, sincronica e improvvisa. In termini di personale sanitario, letti di ospedale, farmaci, strumenti. Ed il fatto che la mortalità si concentri nella popolazione più anziana non autorizza a sottovalutare la questione.
Questa è la dimensione del problema. Il coronavirus, con la sua alta infettività ma relativamente bassa mortalità, pone una sfida che, più che clinica, è logistica. Per questo il panico è fuori luogo: occorrono prontezza, esattezza, freddezza. In Italia, così come in Europa o negli Stati Uniti, esiste il rischio di una pandemia. Chi, nei Paesi occidentali, vive fuori dall’ambiente della salute ha spesso una percezione fortemente distorta dei rischi biologici, e l’illusione che certi scenari di malattia e sofferenza appartengano al passato, o semmai al Terzo Mondo: luogo mitologico, a geografia mutevole. In realtà ciò che garantisce l’igiene pubblica non è tanto il confine o il passaporto, ma l’attenzione quotidiana di una moltitudine silenziosa: dai medici agli infermieri e ai biologi, sparsi per tutto il territorio nazionale, in laboratori e ospedali pubblici o privati. Il rischio concreto di un evento morboso di vasta scala, sempre presente, è costantemente gestito: questo del coronavirus è soltanto nuovo. Ma a ben pensare, cosa fanno i programmi di vaccinazione se non limitare i decessi (o le complicanze gravi) relativi a numerose malattie infettive?
L’epidemia, quella vera, concreta e manzoniana, è sempre in agguato, sull’uscio delle nostre case. Il fatto che sino a ieri non ci pensassimo, non rendeva tale rischio minore. Eppure, viviamo in una realtà ovattata, fatta di politically correct, che non ci prepara in modo adeguato a fronteggiare la benché minima incrinatura nel nostro artefatto stile di vita, da cui sono bandite la morte e la sofferenza. Al punto che, di recente, alcuni si sono sentiti così ingenuamente forti da rinunciare, per sé o per i propri figli, alla protezione offerta dai vaccini, grazie ai quali l’incidenza di malattie ben più spaventose del coronavirus si è così ridotta da far apparire remoto il rischio del contagio.
Oggi, l’evenienza di un nuovo morbo, per il quale i rimedi non sono ancora stati approntati, ha fatto crollare il cielo di carta delle false sicurezze che ci siamo costruiti, riportandoci alla realtà dei nostri avi, o dei nostri contemporanei meno fortunati. Non siamo costitutivamente più invulnerabili di loro, né meno esposti alle conseguenze di un’epidemia, che sia il Covid-19 o la peste del Seicento, se non grazie all’avanzamento delle conoscenze mediche, comprese le norme igieniche e le pratiche preventive.
Se questa prospettiva dovesse apparire surreale o spaventosa, occorre fare un esame di realtà. Così come il fenomeno del terrorismo ci ha costretti a riesaminare le nostre politiche estere, e a valutare non come meri numeri, ma come inquantificabili sofferenze, le condizioni di vita di popolazioni lontane, oggi dobbiamo prendere qualche minuto per riflettere sul tema dell’igiene pubblica. Essa non è un diritto, ma una conquista. Il comportamento di quelle persone che, in preda al panico, hanno eluso le misure ministeriali allontanandosi dalla zona rossa, dimostrano un profondo e grave fraintendimento della propria ed altrui condizione.
Dal coronavirus possiamo e dobbiamo imparare. Lo sforzo di coordinazione e di studio può condurre a un potenziamento del nostro sistema sanitario. Si può impiegare questa occasione per creare un canale diretto con le istituzioni sanitarie, per potenziare l’informazione relativa alla salute pubblica. Si può andare a favorire una nuova coscienza civica. La salute è un valore fondamentale, positivo, da ricercare. Lo si è sostenuto da così tanto tempo, soprattutto nei Paesi con assistenza sanitaria pubblica, che ormai lo si sta dimenticando.
Cedere quindi alla preoccupazione, quasi ci trovassimo a fronteggiare un pericolo al di fuori della nostra portata, sarebbe errato: si tratta di un’evenienza che fa parte della vita dell’uomo di tutte le epoche, e, al di fuori dell’edulcorato mondo occidentale, anche la nostra ne è stata costellata fino a ieri. D’altra parte, rifugiarsi in prospettive rassicuranti che conducano a sottovalutare le norme igieniche e le indicazioni preventive sarebbe irresponsabile, non solo nei confronti di se stessi, ma di tutta la comunità. Non si tratta dunque di preoccuparsi, ma di occuparsi di un problema, anche se questo comporta una modifica radicale, per un po’, del proprio stile di vita, bandendo tanto il panico che la faciloneria e seguendo le norme in modo responsabile e scrupoloso.