IL PRIMATO DELLA VITA
Aun giornale libero come il Corriere Fiorentino è lecito affidare sensazioni irragionevoli, ma insopprimibili. È giusto e giustificato che in questi grigi giorni che ci chiedono una disciplina difficile quanto doverosa per attutire e sconfiggere gli attacchi del coronavirus si pensi anche al dopo e si predispongano provvedimenti per un problematico rilancio dell’economia bloccata, per una ripresa di consuetudini sospese, per ritornare a vivere (quasi) come prima della tempesta. Non c’è di sicuro da scandalizzarsene, semmai da criticare impacciati ritardi o improvvide uscite. Eppure non riesco a sopprimere un moto di fastidio, che mi turba più delle tristi notizie propagate a piena voce da ogni parte. Tutte le iniziative o le prediche che cercano di alleviare i timori e a rincuorare a suon di cifre danno da pensare. Chi vuol occultare i rischi e dissolvere paure con ingenui e fallimentari rimedi psicologici smentisce uno dei fondamenti — perduti? — della nostra civiltà ferita. Non è tollerabile che sempre e ovunque, in ogni discorso, in ogni azione non sia messa in primo piano, senza posticce discussioni o consolanti coperture, la difesa della vita della persona in quanto tale. Non la vitalità economica, si badi, non la mobilità turistica, non la percentuale del Pil più o meno consentita, ma la vita nella sua nudità biologica prima ancora che nelle sue manifestazioni intellettive di socievolezza organizzata. Non è qui il caso — quanti non! — di rifarsi a teorie complesse, che circolano da decenni, né a sistemi filosofici di ardua coerenza. Alludo alla sopravvivenza del corpo e della mente, delle facoltà minacciate, dei desideri mutilati. Le misure drastiche da stabilire e far funzionare non devono essere costrette a temperarsi perché nocive ai calcoli dei manager o alle eccezioni imposte dalla brutale logica del finanzcapitalismo. Al tavolo dei decisori non mi piace che seggano soprattutto i rappresentanti delle categorie o saggi economisti. La pietra di paragone di ogni finalità onestamente perseguita deve essere il rispetto — l’amore —: della persona, la guerra in fraternità al male — emme minuscola — che si diffonde, chissà, fors’anche per alchimie o consuetudini fuori norma, cieche e imprudenti. Staremo a vedere se si riuscirà a scoprire le ragioni del flagello che imperversa. Ma si faccia tutto quanto è fattibile avendo a scopo la tutela della vita, si ritenga essa grazioso dono divino o portato di un’evoluzione stupefacente della materia.
L’eco evangelica che traspare da questo disarmato sentire può sembrare in flagrante contrasto con un celebre ammaestramento tramandato da Matteo: «Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? (6:25). E ancora: «Non siate dunque in ansia, dicendo: ‘Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?’» (6:31). «Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno» (6:34). Ammetto di aver ritagliato poche frasi per laicizzare un comandamento al cui fondo sta il rifiuto di parametrare con l’occhio all’utile un’esigenza assoluta, un’attiva fiducia che escluda reticenze diplomatiche o indorati diversivi. Etica prima dell’economia, anzi come guida di ogni prospettiva che si nutra di fraterna e rigenerante solidarietà verso tutti ignorando le gerarchie dei vani radicati consumi e il volume dei probabili guadagni di pochi, da accumulare con egoistica furia.