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«Non ci possiamo incontrare, non possiamo stare insieme, e allora ci siamo detti: almeno cantiamo, ognuno da casa sua, ma insieme». Così Filippo Cinotti riassume quella voglia di non cedere del tutto alla regola del distacco sociale, sfociata in cori struggenti che si sono levati da un rione di Siena. Nel cuore di una città deserta, ammutolita e impaurita dal coronavirus, i canti della tradizione contradaiola, nelle prime ore della notte hanno spezzato la cappa del silenzio, sbucando all’improvviso da alcune finestre che si rincorrono lungo il rione di Fontebranda e squarciando la cappa dell’angoscia.
Non è un stato un gesto di ribellione alle regole, piuttosto uno spontaneo e genuino bisogno di farsi coraggio, attingendo a un comportamento naturale che i contradaioli senesi hanno nel proprio dna fin da bambini. Di fronte ai rischi di eruzione di un lontano vulcano in un’isola sperduta nell’Oceano, le tribù indigene scacciano la paura con danze rituali. La squadra di rugby della Nuova Zelanda, con la meravigliosa Haka, richiama l’energia antica del popolo Maori, per temprarsi all’impegno agonistico. In fondo i contradaioli dell’Oca, seppure attingendo ad altri richiami culturali e ad altre ritualità, hanno risposto ad un input dello stesso tipo: farsi forza di fronte al nemico subdolo e invisibile, mostrando il meglio della civiltà sedimentata nella condivisione dei valori di Contrada. Ecco perché, tutti i Contradaioli senesi, non solo quelli dell’Oca, appena il video è rimbalzato sui social, come in un novello tam-tam digitale, hanno risposto con la stessa commozione ed il medesimo orgoglio.
Dice Filippo Cinotti che della società dell’Oca è il presidente ed è stato tra i partecipanti al coro: «La sede è chiusa per il virus. Almeno dalle finestre, abbiamo fatto quello che siamo abituati a fare: cantare. Io solo sono sceso in strada per realizzare il video. Ma non ci immaginavamo che avesse questa eco». E non cercavano certo l’audience sui social i ragazzi dell’Oca: «La sera prima — dice Marco Brizzi — con il mio amico Tommaso siamo usciti sul terrazzino di casa mia. Ci ha fatto impressione il silenzio. Ci siamo detti, anche in modo un po’ goliardico, che avremmo potuto parlarci da finestra a finestra. Oppure cantare. Ma doveva essere una cosa solo per noi, una quindicina di ragazzi».
E invece quei cori sono diventati virali, a riprova, forse, che la verità locale è molto più forte dell’omogeneità locale: «A Siena, città alla quale sono molto legato, si sta in casa ma si canta insieme come se si fosse per la strada. Mi sono commosso». Ha scritto così il giornalista Davide Allegranti sul suo profilo, postando i cori e contribuendo ad ampliarne i confini di visibilità sui social.
Il mondo ha reagito con emozione perfino impensabile. Così ha titolato The Independent: «Coronavirus: Deserted Italian street rings out with song as people lean out of windows to sing together during lockdown. (La strada italiana deserta risuona di canzoni mentre la gente si sporge dalle finestre per cantare insieme durante l’isolamento). Noi risplendiamo al meglio nell’oscurità. Grazie Siena». E The Huffpost: «Quarantined Italians Sing Together Across Empty Streets In Hauntingly Beautiful Video. People on Twitter were deeply moved by the impromptu rendition by residents in Siena. (Italiani in quarantena cantano insieme per le strade vuote in un video di struggente bellezza. Le persone su Twitter sono rimaste profondamente commosse dall’estemporanea interpretazione dei senesi)».
Post, commenti, tweet: intorno al video dei ragazzi dell’Oca si è scatenata una cascata — come la definirebbe Cass Sunstein — tipica dei social. Ma stavolta a tutela di una specifica identità, piccola rispetto al mondo distante dal rione di Fontebranda. Domenica, alla stessa ora, i ragazzi del coro hanno dato appuntamento a tutti i senesi, per cantare insieme l’inno di Siena. E provare a spezzare l’assedio del virus, nemico subdolo e invisibile. Per questo più pericoloso.
I contradaioli dell’Oca Ci ha fatto impressione sentire tutto quel silenzio e così almeno dalle finestre abbiamo fatto quello che siamo abituati a fare: cantare