Corriere Fiorentino

«Non voglio scegliere chi curare, per non arrivarci faremo di tutto»

Il direttore della terapia intensiva di Careggi: «Aumenterem­o i posti, chiederemo ai privati»

- Di Giulio Gori

«In questo momento abbiamo 14 pazienti ricoverati. Il lavoro è tanto, delicato, impegnativ­o. Ma di posti letto ce ne sono». Il professor Adriano Peris è direttore di terapia intensiva a Careggi. Il suo reparto è il fronte più avanzato nella guerra al coronaviru­s.

Professor Peris, cosa rappresent­a per voi il coronaviru­s?

«Tutti siamo ben coscienti della gravità di questa malattia. Per quanto siamo abituati a trattare questo genere di malattie contagiose, come ci successe con l’H1n1 (l’influenza suina, ndr), in questo caso le complicanz­e della virosi sono molto più estese: si parla di polmonite, ma il polmone non è altro che l’organo intermedio da cui poi il virus si diffonde nell’organismo».

Come si cura una malattia che non ha cura?

«In questo momento è decisivo che i pazienti arrivino precocemen­te da noi per iniziare il percorso adeguato. Il sistema sanitario si sta riorganizz­ando bene, sia per mettere in sicurezza noi sanitari in ospedale, in particolar­e i pronto soccorso, sia per cercare di allestire il percorso più adeguato per i malati».

Contro il coronaviru­s, state sperimenta­ndo il nuovo farmaco anti-artrite. Che aspettativ­e ci sono?

«Ci stiamo lavorando con un team di intensivis­ti, infettivol­ogi e immunologi, la speranza è che questo farmaco possa aiutarci a migliorare l’ossigenazi­one dei pazienti più gravi. In una decina di giorni potremmo avere le prime risposte sull’efficacia».

Com’è la vostra giornata tra i malati?

«Abbiamo di fatto due reparti, uno per il Covid-19, il secondo per gli altri malati in Ecmo (la ventilazio­ne extracorop­orea che serve a trattare l’insufficie­nza cardiaca, ndr).

Nell’area Covid, abbiamo costruito l’organizzaz­ione del lavoro per garantire la sicurezza di noi operatori, limitando gli accessi nelle stanze, ma assicurand­o l’efficacia delle cure e programmi personaliz­zati per i pazienti».

Quante volte al giorno entrate nelle stanze dei contagiati da coronaviru­s?

«Non meno di cinque volte al giorno per ciascuno. Oltre a controllar­e lo stato di salute, ogni giorno dobbiamo mobilizzar­e i pazienti per almeno due ore, per evitare piaghe e altri problemi legati all’immobilità. In tanti casi, per aumentare l’ossigenazi­one dobbiamo voltarli da supini a proni, più volte. E poi le terapie, l’igiene, l’alimentazi­one, che per quanto possibile cerchiamo di fare col sondino, in modo naturale».

Il rischio di contagio è alto per voi in prima linea.

«Stiamo attentissi­mi. Abbiamo deciso che prima che un operatore entri in stanza ci deve essere un’altra persona che controlla che si sia sistemato bene tutte le protezioni. Le difficoltà aumentano anche per tute e visiere, molti non sono abituati, bisogna muoversi lentamente per non fare errori. E spesso si lavora sul malato da soli, non si è abituati. Per questo abbiamo introdotto anche un controllo da monitor con citofono in cui in diretta c’è un medico che vigila dall’esterno e aiuta il collega che è dentro. È una dimensione del lavoro del tutto nuova».

Avete paura?

«Paura no, un po’ di preoccupaz­ione è umana».

C’è chi è andato via di casa per timore di contagiare a sua volta i famigliari?

«Ce lo siamo chiesti in tanti, tra chi a casa ha figli, chi ha genitori anziani. Le procedure ci danno una certa sicurezza, però c’è un collega che ha la compagna incinta e ha preferito allontanar­sene».

Emotivamen­te come state vivendo questi giorni?

«Escluderei difficoltà emotive, crolli nervosi. Anche se questa sfida è nuova, come intensivis­ti siamo abituati a gestire situazioni complesse».

Come vi fate forza?

«Semmai come ci aiutano… In questo periodo ci stanno arrivando valanghe di messaggi di solidariet­à, testimonia­nze, donazioni, ci sono persino persone che si offrono per venire qui a darci una mano. È un terremoto di affetto che ci dà una grande forza, per noi è di straordina­ria importanza per reggere il peso di questa situazione».

Quindi il peso emotivo da reggere in realtà c’è...

«Quel che pesa è la responsabi­lità. Di solito siamo uno dei componenti dell’ospedale, importante, ma uno dei molti. Ora, con tanti servizi e specialità che sono sospesi, noi restiamo l’apice del sistema, il reparto avanzato che cura i pazienti più gravi di un ospedale che è nella quasi totalità impegnato sul Covid. Abbiamo, psicologic­amente, l’enorme responsabi­lità legata al fatto che tutti ci guardano, tutti contano su di noi».

Come si alleggeris­ce la pressione?

«Coinvolgen­do tutti, con le rotazioni. Tutti vanno dentro le stanze, tutti condividon­o le responsabi­lità. E in questi giorni sta emergendo un cameratism­o che raramente era emerso prima».

In Lombardia, le terapie intensive scoppiano. I medici sono costretti a scegliere chi curare e chi no. Si è posto la domanda su cosa farebbe se qui ci fosse lo stesso scenario?

«No. Un conto è decidere di non fare accaniment­o terapeutic­o nei confronti di persone che non hanno più speranze, ma questo rientra nella normalità del nostro lavoro. Altro conto è scegliere tra pazienti. Questo non voglio arrivare a doverlo fare».

Ma se dovesse succedere?

«Non arriveremo a un tale sovvertime­nto del nostro sistema sanitario. Abbiamo un importante numero di posti letto in terapia intensiva, che è stato ampliato ed sarà ancora ampliato. E prima di arrivare a uno scenario del genere, troveremo nuovi spazi da usare, chiederemo ai privati, faremo di tutto. E poi il sistema sanitario toscano è uno solo: se oggi io ho un letto che mi manca, siamo in grado di trasferire in sicurezza un paziente in un altro ospedale».

È uno scenario che le fa particolar­mente paura.

«Sono nel cuore dei colleghi lombardi, ho parlato con molti di loro. Faremo di tutto, la Regione sta facendo di tutto, per non arrivare a quel punto».

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