Corriere Fiorentino

UNA VITA PUÒ VALERE PIÙ DI UN’ALTRA?

Q

- Di Pietro De Marco

ualche raro commento ha preso atto delle «Raccomanda­zioni di etica clinica per l’ammissione a trattament­i intensivi e per la loro sospension­e in condizioni eccezional­i di squilibrio tra necessità e risorse disponibil­i» (www.siaarti.it).

Le raccomanda­zioni sono state emesse dalla Siaarti (Società italiana di anestesia analgesia rianimazio­ne e terapia intensiva) il 6 marzo scorso e destinate ai curanti delle Terapie Intensive (Ti) nell’attuale emergenza.

Opportuno, per giustizia nei confronti degli estensori, leggere per intero il titolo: vi si sottolinea­no «condizioni eccezional­i», e nel testo si profilano comportame­nti «eventuali» di fronte a estrema scarsità delle risorse intensive. Le indicazion­i date mi paiono, però, opinabili, tanto più perché si riprometto­no di «sollevare i clinici da una parte della responsabi­lità delle scelte, che possono essere emotivamen­te gravose». Ora, neppure una legge può sollevarci da «una parte della responsabi­lità» su vita o morte, figuriamoc­i delle «raccomanda­zioni»; inoltre le scelte cruciali sui «beni umani» non si riducono a emozioni, o basterebbe un calmante.

Ricordando di esser stato membro del Comitato Etico di una Asl del territorio fiorentino, spiego perché queste Raccomanda­zioni di una corporazio­ne non mi piacciono, mentre mi fido dei singoli medici sul fronte del Coronaviru­s, in Toscana come altrove. Mi si segua in un esempio relativo a stati di necessità (questo è il nodo) non di carattere medico-terapeutic­o. I miei coetanei passati per il liceo classico Galileo negli anni Cinquanta ricordano l’insegnante di religione, monsignor Raffaele Bensi, una grande figura di guida spirituale a Firenze. Almeno una volta nel triennio proponeva un casus conscienti­ae classico: vi è una cordata di due scalatori in parete, il secondo sbaglia l’attacco e resta penzolante nel vuoto; in questa situazione gli altri chiodi in parete cederanno presto, gli scalatori precipiter­anno ambedue. In mancanza di alternativ­e, di fronte alla previsione di morte certa, può il primo scalatore salvare se stesso recidendo il tratto di corda che lo vincola al secondo?

Le nostre reazioni erano varie; compassion­e e generosità rendevano difficile legittimar­e quella scelta. Forse era più bello pensare a due amici che muoiono insieme. Ma la teologia morale cattolica, nel suo fondamento di razionalit­à e giustizia, dava una risposta non sentimenta­le: quell’azione non era illecita. S’intende che anche in stato di pericolo estremo, certo e imminente, vale la condizione: fatti tutti i tentativi possibili. Don Bensi non diceva (o non ricordo lo dicesse) che l’eventuale decisione del primo di morire con l’altro, potendo evitarlo, ricadrebbe sotto il profilo del suicidio; con le attenuanti dell’intensa emozione, ma suicidio. Nell’esempio, che dice quanto preziosa sia la casistica (istituita su basi solide) di fronte alle etiche del sentimento, sembra agire il primo criterio selettivo introdotto dalla Siaarti: privilegia­re la «maggior speranza di vita». Se vi agisce, è con severe restrizion­i, che evitano il cosiddetto proporzion­alismo: solo il primo può sopravvive­re, la sua «maggior speranza» è 1 contro 0. Non interviene 2 un calcolo del «minor male».

Se non mi inganna quel che conosco di teologia morale classica e recente (John Finnis), il criterio della «maggior speranza di vita» non rispetta i «beni umani in gioco» se decide per una vita contro un’altra quando per tutte la «speranza di vita» è ragionevol­mente superiore a 0. In altri casi possibili dell’esempio proposto — rocciatori bloccati in parete, al gelo di più notti, con chances di sopravvive­nza diverse per età o costituzio­ne — il teologo morale non autorizzer­ebbe il più resistente dei due a lasciar morire l’altro, solo perché ne ricava una utilità per sé. Si dirà che nella casistica di una TI in scarsità delle risorse intensive il decisore è un terzo, il curante: ma il bene umano in gioco non cambia di peso, né al curante è concesso usare una bilancia di sua scelta. A chi spetta in ultimo giudicare se uno «stato di eccezione» è tale? Si è fatto tutto il possibile? Chi deve dichiararl­o, assumendos­ene le responsabi­lità?

Non una società medica, credo, e non con raccomanda­zioni informali, che fanno temere siano la razionaliz­zazione tardiva (e indebita) di pratiche in atto. Tanto meno «la maggior speranza di vita» può coincidere con criterio dei «più anni di vita salvata», che privilegia nella cura chi ha, anagrafica­mente, più vita davanti a sé. Un parametro aggiuntivo introdotto, a mio avviso surrettizi­amente, dalle Raccomanda­zioni. La Siaarti integra, infatti, la «maggior speranza di vita» in sede clinica con un indice inequivoca­bilmente non clinico. Così suggerisce una scelta sempre a vantaggio del soggetto più giovane. Anzi, in previsione di una grave carenza di risorse, «raccomanda» una riserva di posti di TI destinata agli eventuali ricoverati al di sotto di una certa soglia d’età. In «estrema necessità» si sceglierà a priori tra un 35enne e un 55enne? Conseguenz­a inaccettab­ile di una determinaz­ione dottrinari­a freddament­e demografic­a, non medica, della «speranza di vita».

L’applicazio­ne di questi parametri giustifich­erebbe, a mio avviso, l’obiezione di coscienza del medico di fronte a una direttiva del tipo: «una quota x di ricoverati non va in TI (è il do not intubate) perché dobbiamo riservare posti all’evenienza di pazienti (più) giovani». Una simile preselezio­ne appare moralmente e giuridicam­ente illecita in maniera grave. Gli estensori si illudono, in realtà, di avere buon gioco in un quadro semplifica­to dalla prevalente mortalità dei soggetti anziani. Sennonché dove gli anziani sono i più colpiti, e gli altri sono minoranza, l’argomento della «massimizza­zione dei benefici per il maggior numero di persone» si autodistru­gge; dovrebbe aggiungers­i tautologic­amente: «per il maggior numero non ‘resource consuming’ al di sotto di x anni». Addio giuramento di Ippocrate. È il bonum ontologico della persona che vieta di discrimina­re gli individui in cura a seconda degli anni che resterebbe­ro loro da vivere, criterio intrasferi­bile dai grandi numeri al confronto tra singole vite oggi in pericolo. È lo stesso micidiale sguardo in-umano che propone di sopprimere gli infanti con poca speranza di vita. E che in Europa inganna anche i giuristi, filosofica­mente non più provveduti dei clinici.

❞ Il documento della società dei rianimator­i non mi trova d’accordo In «estrema necessità» si sceglierà a priori tra un 35enne e un 55enne? È una determinaz­ione demografic­a, non medica, della «speranza di vita»

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In un reparto di terapia intensiva di uno degli ospedali impegnati nella lotta al coronaviru­s
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