UNA VITA PUÒ VALERE PIÙ DI UN’ALTRA?
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ualche raro commento ha preso atto delle «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili» (www.siaarti.it).
Le raccomandazioni sono state emesse dalla Siaarti (Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva) il 6 marzo scorso e destinate ai curanti delle Terapie Intensive (Ti) nell’attuale emergenza.
Opportuno, per giustizia nei confronti degli estensori, leggere per intero il titolo: vi si sottolineano «condizioni eccezionali», e nel testo si profilano comportamenti «eventuali» di fronte a estrema scarsità delle risorse intensive. Le indicazioni date mi paiono, però, opinabili, tanto più perché si ripromettono di «sollevare i clinici da una parte della responsabilità delle scelte, che possono essere emotivamente gravose». Ora, neppure una legge può sollevarci da «una parte della responsabilità» su vita o morte, figuriamoci delle «raccomandazioni»; inoltre le scelte cruciali sui «beni umani» non si riducono a emozioni, o basterebbe un calmante.
Ricordando di esser stato membro del Comitato Etico di una Asl del territorio fiorentino, spiego perché queste Raccomandazioni di una corporazione non mi piacciono, mentre mi fido dei singoli medici sul fronte del Coronavirus, in Toscana come altrove. Mi si segua in un esempio relativo a stati di necessità (questo è il nodo) non di carattere medico-terapeutico. I miei coetanei passati per il liceo classico Galileo negli anni Cinquanta ricordano l’insegnante di religione, monsignor Raffaele Bensi, una grande figura di guida spirituale a Firenze. Almeno una volta nel triennio proponeva un casus conscientiae classico: vi è una cordata di due scalatori in parete, il secondo sbaglia l’attacco e resta penzolante nel vuoto; in questa situazione gli altri chiodi in parete cederanno presto, gli scalatori precipiteranno ambedue. In mancanza di alternative, di fronte alla previsione di morte certa, può il primo scalatore salvare se stesso recidendo il tratto di corda che lo vincola al secondo?
Le nostre reazioni erano varie; compassione e generosità rendevano difficile legittimare quella scelta. Forse era più bello pensare a due amici che muoiono insieme. Ma la teologia morale cattolica, nel suo fondamento di razionalità e giustizia, dava una risposta non sentimentale: quell’azione non era illecita. S’intende che anche in stato di pericolo estremo, certo e imminente, vale la condizione: fatti tutti i tentativi possibili. Don Bensi non diceva (o non ricordo lo dicesse) che l’eventuale decisione del primo di morire con l’altro, potendo evitarlo, ricadrebbe sotto il profilo del suicidio; con le attenuanti dell’intensa emozione, ma suicidio. Nell’esempio, che dice quanto preziosa sia la casistica (istituita su basi solide) di fronte alle etiche del sentimento, sembra agire il primo criterio selettivo introdotto dalla Siaarti: privilegiare la «maggior speranza di vita». Se vi agisce, è con severe restrizioni, che evitano il cosiddetto proporzionalismo: solo il primo può sopravvivere, la sua «maggior speranza» è 1 contro 0. Non interviene 2 un calcolo del «minor male».
Se non mi inganna quel che conosco di teologia morale classica e recente (John Finnis), il criterio della «maggior speranza di vita» non rispetta i «beni umani in gioco» se decide per una vita contro un’altra quando per tutte la «speranza di vita» è ragionevolmente superiore a 0. In altri casi possibili dell’esempio proposto — rocciatori bloccati in parete, al gelo di più notti, con chances di sopravvivenza diverse per età o costituzione — il teologo morale non autorizzerebbe il più resistente dei due a lasciar morire l’altro, solo perché ne ricava una utilità per sé. Si dirà che nella casistica di una TI in scarsità delle risorse intensive il decisore è un terzo, il curante: ma il bene umano in gioco non cambia di peso, né al curante è concesso usare una bilancia di sua scelta. A chi spetta in ultimo giudicare se uno «stato di eccezione» è tale? Si è fatto tutto il possibile? Chi deve dichiararlo, assumendosene le responsabilità?
Non una società medica, credo, e non con raccomandazioni informali, che fanno temere siano la razionalizzazione tardiva (e indebita) di pratiche in atto. Tanto meno «la maggior speranza di vita» può coincidere con criterio dei «più anni di vita salvata», che privilegia nella cura chi ha, anagraficamente, più vita davanti a sé. Un parametro aggiuntivo introdotto, a mio avviso surrettiziamente, dalle Raccomandazioni. La Siaarti integra, infatti, la «maggior speranza di vita» in sede clinica con un indice inequivocabilmente non clinico. Così suggerisce una scelta sempre a vantaggio del soggetto più giovane. Anzi, in previsione di una grave carenza di risorse, «raccomanda» una riserva di posti di TI destinata agli eventuali ricoverati al di sotto di una certa soglia d’età. In «estrema necessità» si sceglierà a priori tra un 35enne e un 55enne? Conseguenza inaccettabile di una determinazione dottrinaria freddamente demografica, non medica, della «speranza di vita».
L’applicazione di questi parametri giustificherebbe, a mio avviso, l’obiezione di coscienza del medico di fronte a una direttiva del tipo: «una quota x di ricoverati non va in TI (è il do not intubate) perché dobbiamo riservare posti all’evenienza di pazienti (più) giovani». Una simile preselezione appare moralmente e giuridicamente illecita in maniera grave. Gli estensori si illudono, in realtà, di avere buon gioco in un quadro semplificato dalla prevalente mortalità dei soggetti anziani. Sennonché dove gli anziani sono i più colpiti, e gli altri sono minoranza, l’argomento della «massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone» si autodistrugge; dovrebbe aggiungersi tautologicamente: «per il maggior numero non ‘resource consuming’ al di sotto di x anni». Addio giuramento di Ippocrate. È il bonum ontologico della persona che vieta di discriminare gli individui in cura a seconda degli anni che resterebbero loro da vivere, criterio intrasferibile dai grandi numeri al confronto tra singole vite oggi in pericolo. È lo stesso micidiale sguardo in-umano che propone di sopprimere gli infanti con poca speranza di vita. E che in Europa inganna anche i giuristi, filosoficamente non più provveduti dei clinici.
❞ Il documento della società dei rianimatori non mi trova d’accordo In «estrema necessità» si sceglierà a priori tra un 35enne e un 55enne? È una determinazione demografica, non medica, della «speranza di vita»