Corriere Fiorentino

SOLO NUMERI: PIETÀ L’È MORTA

- Di Mario Lancisi

Riccardo, Giovanni, Angiolo, Mario, Corrado, Gina, Lando: perdonatec­i per non avervi presi per mano e dato una carezza nel vostro congedo dalla vita. È vero che davanti alla morte si è soli, ma lo sguardo delle persone care forse favorisce il viaggio nel mistero dell’aldilà. Purtroppo le misure di precauzion­e dal contagio impediscon­o l’ultimo saluto: niente benedizion­i, niente messe e niente funerali. E le lacrime, i ricordi, il dolore siamo costretti a viverli nell’intimità delle nostre case blindate al contagio.

Misure giuste, sacrosante, decise per salvare le nostre vite, ma ci viene da chiedere se sia giusto poter andare dal tabaccaio e non ad accarezzar­e i nostri cari nel loro passaggio estremo. Ci resta difficile capire come non sia stato possibile elaborare un protocollo anche rigido per consentire ai parenti più stretti di dare l’estremo saluto alla persona amata.

Il sospetto è che l’ultima carezza negata evidenzi in realtà il nostro irrisolto rapporto con la morte. Non a caso l’epidemia è raccontata dalle autorità politiche e mediche attraverso i numeri, i picchi, le curve mentre ai parenti sono riservate le lacrime come se la morte sia un fatto meramente privato. Quando invece non c’è nulla di più pubblico, nel senso di qualcosa che appartiene a tutti, della nascita e della morte. Scrisse qualche anno fa il poeta Mario Luzi: «Vita e morte sono concetti inscindibi­li: non possono essere separati. Non riesco ad avere l’idea della vita senza l’idea della morte. La morte non la considero un’alterità assoluta rispetto alla vita».

Nei funerali negati, anche in un’accezione dimessa e controllat­a, a tutti i defunti, non solo a quelli da Coronaviru­s, c’è proprio questa scissione tra la vita e la morte. Nelle file interminab­ili di bare che sfilano nei nostri tg ci pare che in realtà vada in onda lo show dell’efficienza ma che non emerga il culto e la pietà per i morti, il tratto forse più distintivo e grandioso della civiltà umana, dagli antichi popoli ad oggi. In quelle bare manca un fiore, una lacrima, una carezza. Mancano le nostre vite. E gli sguardi dei più giovani, cui stiamo negando la profondità della vita nello sguardo moribondo dei nostri cari.

Già i nostri ragazzi. C’è stato un tempo in cui venivano portati al cimitero in visita ai «cari defunti» come si va a trovare parenti e amici. E il 2 novembre, festa dei morti, c’era un clima di memoria insieme dolorosa e gioiosa con i fiori, le candele, i lumini e i banchetti dei torroni e dei brigidini. Era il tempo in cui , per malinteso senso di protezione come avviene oggi, la morte non veniva sottratta allo sguardo dei giovani, che assistevan­o al senso di nudità e umiliazion­e del trapasso dei propri cari, che avveniva spesso in casa, tra l’odore del ragù e i pianti dei familiari.

Forse i funerali di Riccardo, Giovanni, Angiolo, Mario, Corrado, Gina, Lando sono solo rinviati. C’è da auspicarlo. Soprattutt­o per noi perché l’epidemia non contagi le nostre anime del virus dell’indifferen­za e del cinismo e ci impedisca di riflettere sul senso profondo della vita e della morte.

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