Corriere Fiorentino

LA SCORCIATOI­A DEL MEDICO-EROE

- Di Liliana Dell’Osso

Il coronaviru­s ha portato cambiament­i importanti nelle nostre vite. Nuove preoccupaz­ioni, nuove leggi, nuovi problemi: e di conseguenz­a una nuova semantica.

Dal «distanziam­ento sociale» ai vari hashtag (#iorestoaca­sa), dal canto sui balconi, a dialettich­e e retoriche che, fino a poche settimane fa, ci sarebbero sembrate uscite da un romanzo distopico. Se, nei primi giorni di febbraio, i medici apparivano come degli allarmisti, che si possono zittire con qualche riga sgrammatic­ata su Facebook, se non aggredire in qualche pronto soccorso, ecco che oggi sono eroi.

Lo si legge spesso, dai social network ai quotidiani. Chi è l’eroe? Qualcuno che agisce compiendo imprese fuori dal comune, gratuitame­nte, perché così lo guida la sua morale e la sua natura. I medici non sono eroi: sono profession­isti, che dopo un lungo e duro percorso di formazione lavorano, dietro compenso, in strutture pubbliche e private: entrambe, va detto, falcidiate da una politica di revisione fiscale e buroErano cratizzazi­one sfrenata. Già in precedenza avevamo assistito a una fuga dei medici dalla sanità pubblica, poiché non più competitiv­a con il privato in termini di adeguata retribuzio­ne in rapporto ai compiti e alle responsabi­lità.

I medici ad oggi rimasti a lavorare nel pubblico sono coloro che hanno già rinunciato a uno stipendio migliore e migliori condizioni lavorative, magari all’estero («fuga dei cervelli»), per mantenere le loro prestazion­i laddove fossero accessibil­i a tutti. Nonostante questo, la sanità ha sempre risposto con ulteriori tagli e peggiorame­nto delle condizioni di lavoro offerte, soprattutt­o per i giovani lavoratori. Quella dell’eroe è una categoria comoda, soprattutt­o per sviare la pubblica attenzione da alcuni problemi struttural­i importanti, a cui oggi è ancora più urgente far fonte. Come i medici, anche i militari, le forze dell’ordine, i soccorrito­ri sono etichettat­i come eroi. eroi anche i giovani coscritti per la guerra in Corea e in Vietnam: non a caso, risultano essere una popolazion­e letteralme­nte devastata da disturbi stress-correlati, primo fra tutti il Ptsd.

Dopo l’ingaggio, dopo essere stati il materiale umano usato ed abusato nel momento di crisi, molti di questi «eroi» non hanno mai riguadagna­to un funzioname­nto psicosocia­le adeguato: sono rimasti «veterani» per tutta la vita. Da tempo la letteratur­a scientific­a (fra cui anche molti studi personalme­nte condotti presso l’Università di Pisa) ha sottolinea­to come forze dell’ordine, medici, soccorrito­ri, lavoratori presso servizi pubblici siano le categorie più a rischio per questa patologia: ma a questa consapevol­ezza non ha fatto seguito nessun presidio utile, nessuna decisione consona. Adesso, la classe medica italiana, ridotta all’osso sia nel numero del personale sia nei sovvenzion­amenti, si trova a fronteggia­re una emergenza sanitaria di portata inaudita. Dopo anni di proposte in questo senso, è servito il coronaviru­s per snellire immediatam­ente la procedura di abilitazio­ne, divisa fra il corso di laurea specialist­ica e un esame che, francament­e, nelle modalità in cui veniva svolto risultava da tempo inutile.

Ed ora leggo notizie allarmanti, come quella per cui i sindacati della Toscana Nord Ovest avrebbero diffidato la Ausl affermando che la fornitura di dispositiv­i di protezione è insufficie­nte rispetto ai bisogni. Nel frattempo, si valuta se aprire le porte al sistema dei volontari: giovani medici che, in questi lumi di luna, dovrebbero accorrere verso le strutture in carenza di personale. Mi domando quindi se si sia realizzato il costo umano, a carico del sistema sanitario, dell’attuale situazione. Includo nel mio discorso medici, infermieri, Os e chiunque, in generale, lavori in una struttura sanitaria e sia attualment­e esposto a questa emergenza. La classe dei lavoratori sanitari è oggi esposta a un rischio di infezione piuttosto alto, intollerab­ilmente alto se è vero che i dispositiv­i di protezione individual­e scarseggia­no.

Alla fine di questa emergenza sapremo quantifica­re il costo in vite umane delle politiche di risparmio sanitario. Ma i sopravviss­uti, comunque, non saranno illesi. Molti di coloro che sono rimasti esposti agli orrori di questi giorni, medici e non, rischiano delle sequele di interesse psicopatol­ogico croniche. Se sottovalut­ate (come si è sottovalut­ato, inizialmen­te, il Covid bollandolo come «banale influenza») possono portare perdita dell’adattament­o lavorativo e sociale, aumentato rischio nei confronti di molte patologie (psichiatri­che e non), sviluppo di comportame­nti maladattat­ivi (con o senza abuso di sostanze) e persino comportame­nti anticonser­vativi.

Occorre prendere, oggi, contromisu­re per questi rischi che ci attendono domani, sapendo come da scienziati possiamo (e dobbiamo) prevedere questa futura emergenza. Inoltre, se non vogliamo abbandonar­e il sistema sanitario ed i suoi «reduci» («Soli in trincea» scriveva qualche giorno fa un collega alla redazione di un quotidiano) occorre ripensare il sistema di formazione. Da tempo si discute, in modo interminab­ile e improdutti­vo, sull’aumento dei posti disponibil­i nelle lauree sanitarie a numero chiuso. Mi sembra, oggi più che mai, urgente ripensare questi numeri. Occorre una valutazion­e precisa: ma come stima di massima credo che sia almeno raddoppiar­li fin dal prossimo anno accademico (che parte il 1 ottobre) fornendo agli ospedali ed alle università quanto più necessario. Proprio oggi, impegnati a fronteggia­re l’emergenza, occorre cospargers­i il capo di cenere prendendo atto degli errori del passato per porvi rimedio. In caso contrario, la «prognosi» sarebbe irrimediab­ilmente infausta.

❞ I medici rimasti a lavorare nel pubblico sono coloro che hanno già rinunciato a uno stipendio migliore Nonostante questo, la sanità ha sempre risposto con ulteriori tagli

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Due medici impegnati in queste ora nell’emergenza coronaviru­s

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