LA SCORCIATOIA DEL MEDICO-EROE
Il coronavirus ha portato cambiamenti importanti nelle nostre vite. Nuove preoccupazioni, nuove leggi, nuovi problemi: e di conseguenza una nuova semantica.
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Dal «distanziamento sociale» ai vari hashtag (#iorestoacasa), dal canto sui balconi, a dialettiche e retoriche che, fino a poche settimane fa, ci sarebbero sembrate uscite da un romanzo distopico. Se, nei primi giorni di febbraio, i medici apparivano come degli allarmisti, che si possono zittire con qualche riga sgrammaticata su Facebook, se non aggredire in qualche pronto soccorso, ecco che oggi sono eroi.
Lo si legge spesso, dai social network ai quotidiani. Chi è l’eroe? Qualcuno che agisce compiendo imprese fuori dal comune, gratuitamente, perché così lo guida la sua morale e la sua natura. I medici non sono eroi: sono professionisti, che dopo un lungo e duro percorso di formazione lavorano, dietro compenso, in strutture pubbliche e private: entrambe, va detto, falcidiate da una politica di revisione fiscale e buroErano cratizzazione sfrenata. Già in precedenza avevamo assistito a una fuga dei medici dalla sanità pubblica, poiché non più competitiva con il privato in termini di adeguata retribuzione in rapporto ai compiti e alle responsabilità.
I medici ad oggi rimasti a lavorare nel pubblico sono coloro che hanno già rinunciato a uno stipendio migliore e migliori condizioni lavorative, magari all’estero («fuga dei cervelli»), per mantenere le loro prestazioni laddove fossero accessibili a tutti. Nonostante questo, la sanità ha sempre risposto con ulteriori tagli e peggioramento delle condizioni di lavoro offerte, soprattutto per i giovani lavoratori. Quella dell’eroe è una categoria comoda, soprattutto per sviare la pubblica attenzione da alcuni problemi strutturali importanti, a cui oggi è ancora più urgente far fonte. Come i medici, anche i militari, le forze dell’ordine, i soccorritori sono etichettati come eroi. eroi anche i giovani coscritti per la guerra in Corea e in Vietnam: non a caso, risultano essere una popolazione letteralmente devastata da disturbi stress-correlati, primo fra tutti il Ptsd.
Dopo l’ingaggio, dopo essere stati il materiale umano usato ed abusato nel momento di crisi, molti di questi «eroi» non hanno mai riguadagnato un funzionamento psicosociale adeguato: sono rimasti «veterani» per tutta la vita. Da tempo la letteratura scientifica (fra cui anche molti studi personalmente condotti presso l’Università di Pisa) ha sottolineato come forze dell’ordine, medici, soccorritori, lavoratori presso servizi pubblici siano le categorie più a rischio per questa patologia: ma a questa consapevolezza non ha fatto seguito nessun presidio utile, nessuna decisione consona. Adesso, la classe medica italiana, ridotta all’osso sia nel numero del personale sia nei sovvenzionamenti, si trova a fronteggiare una emergenza sanitaria di portata inaudita. Dopo anni di proposte in questo senso, è servito il coronavirus per snellire immediatamente la procedura di abilitazione, divisa fra il corso di laurea specialistica e un esame che, francamente, nelle modalità in cui veniva svolto risultava da tempo inutile.
Ed ora leggo notizie allarmanti, come quella per cui i sindacati della Toscana Nord Ovest avrebbero diffidato la Ausl affermando che la fornitura di dispositivi di protezione è insufficiente rispetto ai bisogni. Nel frattempo, si valuta se aprire le porte al sistema dei volontari: giovani medici che, in questi lumi di luna, dovrebbero accorrere verso le strutture in carenza di personale. Mi domando quindi se si sia realizzato il costo umano, a carico del sistema sanitario, dell’attuale situazione. Includo nel mio discorso medici, infermieri, Os e chiunque, in generale, lavori in una struttura sanitaria e sia attualmente esposto a questa emergenza. La classe dei lavoratori sanitari è oggi esposta a un rischio di infezione piuttosto alto, intollerabilmente alto se è vero che i dispositivi di protezione individuale scarseggiano.
Alla fine di questa emergenza sapremo quantificare il costo in vite umane delle politiche di risparmio sanitario. Ma i sopravvissuti, comunque, non saranno illesi. Molti di coloro che sono rimasti esposti agli orrori di questi giorni, medici e non, rischiano delle sequele di interesse psicopatologico croniche. Se sottovalutate (come si è sottovalutato, inizialmente, il Covid bollandolo come «banale influenza») possono portare perdita dell’adattamento lavorativo e sociale, aumentato rischio nei confronti di molte patologie (psichiatriche e non), sviluppo di comportamenti maladattativi (con o senza abuso di sostanze) e persino comportamenti anticonservativi.
Occorre prendere, oggi, contromisure per questi rischi che ci attendono domani, sapendo come da scienziati possiamo (e dobbiamo) prevedere questa futura emergenza. Inoltre, se non vogliamo abbandonare il sistema sanitario ed i suoi «reduci» («Soli in trincea» scriveva qualche giorno fa un collega alla redazione di un quotidiano) occorre ripensare il sistema di formazione. Da tempo si discute, in modo interminabile e improduttivo, sull’aumento dei posti disponibili nelle lauree sanitarie a numero chiuso. Mi sembra, oggi più che mai, urgente ripensare questi numeri. Occorre una valutazione precisa: ma come stima di massima credo che sia almeno raddoppiarli fin dal prossimo anno accademico (che parte il 1 ottobre) fornendo agli ospedali ed alle università quanto più necessario. Proprio oggi, impegnati a fronteggiare l’emergenza, occorre cospargersi il capo di cenere prendendo atto degli errori del passato per porvi rimedio. In caso contrario, la «prognosi» sarebbe irrimediabilmente infausta.
❞ I medici rimasti a lavorare nel pubblico sono coloro che hanno già rinunciato a uno stipendio migliore Nonostante questo, la sanità ha sempre risposto con ulteriori tagli