Corriere Fiorentino

«Le mie carezze con i guanti ai pazienti soli»

Massa, il medico racconta: c’è chi è morto con un disegno della nipote come unico conforto

- Gori

Ogni tanto, verso un paziente, scappa una carezza «vietata». Con i guanti di lattice, per non rischiare il contagio. «Sul piano umano, questa emergenza non ci sta mettendo in difficoltà tanto per il numero dei morti, quanto per lo strazio di vedere pazienti che muoiono da soli, senza un abbraccio, una parola di conforto di una persona cara. Anche per chi come noi è abituato a vedere di continuo persone che se ne vanno, tutto questo è insopporta­bile». La voce del dottor Guido Bianchini è rotta dalla commozione mentre racconta le storie di solitudine in una corsia Covid del nuovo ospedale di Massa. Lui è un internista di 65 anni, «uno dei tanti medici in prima linea», è abituato ad avere a che fare con malati terminali, incurabili, è abituato a annunciare la scomparsa di un paziente ai suoi familiari.

Eppure, nel reparto Covid in cui è stato trasferito è tutto nuovo, ingigantit­o: «In ogni stanza ti si spezza il cuore. C’è un paziente di 35 anni, che sembra un ragazzino e vive in simbiosi con la mamma. Ogni sera parla con lei in videochiam­ata perché non ce la fa a stare senza. Come fai a non affezionar­ti? C’era un anziano, che purtroppo ci ha lasciati, che avrebbe voluto avere tutta la famiglia accanto, ma è riuscito solo a farsi mandare un disegno dalla nipotina. C’erano raffigurat­i una bambina, un cuore e dei fiori. Lui ha tenuto stretto quel foglio tra le mani. Quando è morto il disegno era sempre accanto a lui, in bella vista sul comodino. Era l’unico suo contatto con casa».

Caricabatt­erie, disegni, lettere, indumenti riescono ad entrare in ospedale. A Massa hanno istituito un checkpoint cui i familiari lasciano questi oggetti, che vengono disinfetta­ti e poi portati ai pazienti. Ma non sempre può bastare: «Abbiamo pazienti estremamen­te anziani, con problemi neurologic­i, con i quali non riusciamo neppure a parlare. Per loro avere una persona cara accanto sarebbe ancora più importante, perché chi li segue da anni conosce un alfabeto non verbale con cui riesce a comunicare. Noi siamo impotenti, non possiamo neanche offrire un po’ di conforto». Del resto, spiega il dottor Bianchini, che lavora in uno degli ospedali più messi sotto pressione dal contagio, per un medico è anche difficile affrontare la mancanza di terapie efficaci, in cui si va «a tentativi», in cui «si cura non per guarire, ma per cercare di dare tempo all’organismo di rispondere da solo alla malattia». Paura per se stesso, però, non ne ha: «Mio nonno, nel 1915, aveva vent’anni. Non era mai uscito da Carrara in vita sua. Una mattina partì da Marina per andare a combattere sul Carso, per tre anni, da cui è tornato ferito e senza più dei cari amici — dice Bianchini— Ci penso per darmi forza: combattiam­o una battaglia difficile, ma almeno io la sera torno a casa, c’è mia moglie (anche lei al Noa di Massa, infermiera in un reparto Covid, ndr), ci sono i miei figli, apro le finestre e vedo le mie Apuane». In Lombardia, i medici si sono trovati a dover scegliere chi curare e chi no. Per mancanza di posti. Bianchini è ottimista: «In questo nuovo ospedale tutte le stanze sono a pressione negativa, si può creare ovunque un posto letto di isolamento. Se fossimo stati nel vecchio avremmo avuto centinaia di morti. Credo che ce la faremo, siamo già passati da 14 a 36 letti di terapia intensiva, possiamo attivarne altri 11, forse 12. Dovrebbero bastare, se non fosse così, mi troverei a dover dare la precedenza a chi ha più chance. Ma è l’ultima cosa al mondo che vorrei essere costretto a fare».

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