Siena, l’arcivescovo Lojudice: la Chiesa ora non dimentichi l’importanza della tecnologia
Lojudice, arcivescovo di Siena: c’è un nuovo alfabeto, dobbiamo tenerne conto
Il «Vescovo di strada». Era stato definito così monsignor Augusto Paolo Lojudice, 56 anni, romano,quando era stato nominato da Papa Francesco, vescovo ausiliare per la periferia sud di Roma. Magliana, Ardeatina, Laurentina, Tuscolana: quartieri dove la bellezza della Capitale appare lontana. E lui, da vescovo, aveva scelto il dialogo con gli ultimi: poveri, prostitute, Rom. Segretario della Commissione Episcopale delle Migrazioni, non ha esitato a censurare certe esasperazioni dell’allora ministro degli Interni Salvini. Da sempre Lojudice è considerato vicinissimo a Papa Francesco. Ma lui rifugge gli schieramenti: «Tutti noi che siamo Chiesa — dice — dobbiamo stare vicini al Papa».
Da 11 mesi lei è Arcivescovo di Siena. Che cosa le ha sottratto il virus della sua missione pastorale?
«Non posso dire nulla, perché non è vero. La nostra è una missione pastorale di forte condivisione con il popolo dei fedeli. È nella natura della nostra fede. C’erano relazioni avviate, anche con i rappresentanti istituzionali civili, di confronto sulle necessità dei territori della nostra diocesi. Niente andrà disperso, nessun dialogo interrotto. La fede resta, l’annuncio resta. La parola di Dio è stata gridata dai tetti. Le antenne della tv, quelle delle connessioni in Rete, ci hanno aiutato durante il lockdown a diffondere la parola di Dio in un mondo immerso nella sofferenza. Il nostro grido non si è mai interrotto».
Maggio, giugno, sono mesi di battesimi, comunione, cresime, matrimoni, la processione del Corpus Domini di metà giugno, a Siena, ha sempre visto una grande partecipazione. Che cosa succederà?
«Il protocollo firmato giovedì tra Cei e governo specifica che le misure di contenimento e gestione dell’emergenza si applicano anche in codeste occasioni. Poi vedremo come evolverà la Fase 2. Ma le comunioni e le cresime a Siena sono rinviate a dopo l’estate. Avevo matrimoni in agenda, ma ci hanno già pensato le coppie a posticipare: non sono momenti da far festa. Per le processioni non possiamo minimamente pensare a coinvolgimenti di popolo: vediamo se ci può essere una forma contingentata di presenze, ma senza rischio di assembramenti. Navighiamo a vista».
Dopo le proteste della Cei contro il governo sulle chiese in lockdown, lei si è distinto per una linea di mediazione. Come giudica il protocollo firmato tra governo e Cei?
«L’aspettavamo tutti. È una gioia tornare alle celebrazioni liturgiche dal vivo: la comunità cristiana sentiva il bisogno di tornare in chiesa. Ci sono stati momenti difficili per l’errore del primo Dpcm, quando si parlò genericamente di cerimonie. Come se la vita della Chiesa fosse una cerimonia. Poi lo spirito di collaborazione ha prevalso, perché salvaguardia della salute e vita liturgica possono convivere. Ci siamo riuniti in videoconferenza venerdì sera, noi vescovi toscani, per calare bene il protocollo nella nostra realtà. Nelle chiese piccole — e nella mia diocesi di Siena ce ne sono molte — sarà ancora più un problema, forse ci allargheremo ai sacrati esterni dove possibile».
Nel frattempo, c’è stata però una capacità di adeguarsi all’uso delle nuove tecnologie: messe in streaming persino da casa di sacerdoti. Cosa ne pensa?
«Se non possiamo stare uniti, se non possiamo vederci, teniamoci insieme attraverso i social. Rendersi presenti attraverso l’ascolto, anche via Internet, nell’esperienza della fede è importante, perché rende la celebrazione liturgica comunque dialogo. Aiuta anche noi che celebriamo, perché le assicuro che dire messa in una cattedrale vuota, è difficile. Sapere che invece il popolo di Dio c’è accanto a te, seppure attraverso un computer, aiuta. È uno strumento nell’emergenza o per chi ha impedimenti per venire in chiesa».
Però il vuoto ha riempito anche le coscienze dei laici. Mi riferisco a quelle immagini di Papa Francesco, immerso appunto nel vuoto di Piazza San Pietro. O le messe di Pasqua celebrate da voi vescovi in queste cattedrali toscane deserte. Questi vuoti di grande potenza sono arrivati all’anima di tutti, non necessariamente fedeli. Perché?
«Io credo soprattutto perché è una situazione inedita. Nell’immaginario collettivo nessuno avrebbe mai pensato di vedere un Papa solo, sofferente, in una piazza San Pietro deserta. Oppure noi, che le messe di Pasqua abbiamo celebrato, come avremmo anche lontanamente potuto ipotizzare che quei momenti così di festa per noi cristiani, fossero invece avvolti nella solitudine? Le immagini hanno testimoniato con potenza, non solo il contesto oggettivo, visibile, ma hanno anche evocato i sentimenti di smarrimento. Ne è emersa l’unicità di quanto stava accadendo, ma anche la forza drammatica della solitudine, che pervade ogni uomo. Quelle immagini ci hanno fatto immedesimare nell’assoluta solitudine. L’abbiamo condivisa con i mezzi di comunicazione e così, in qualche modo, sconfitta».
Lei ci crede a quella che è stata definita la «Teoria del conforto religioso»? Cioè il fatto che in mezzo a tragedie come quella che stiamo vivendo, il ricorso alla fede sia un mezzo — anche per i laici — per resistere meglio alla paura?
«Può essere che la paura spinga verso la fede. Ma la fede non si basa sulla paura. È esattamente il contrario. La nostra visione di fede ci dice che Dio trae da tutte le esperienze tragiche l’occasione per farci capire qualcosa e rimetterci in discussione. Non certo per farci del male, ma per indurci al bene»
C’è questa frase che imperversa per il dopo virus, «niente sarà più come prima». Ma non è, invece, che il virus aumenterà le diseguaglianze? Nell’uso delle tecnologie, nella povertà…
«È un’espressione che io non uso. Semmai spero che questa esperienza ci lasci un po’ diversi. Sui nuovi strumenti tecnologici è ormai chiaro che l’alfabeto comunicativo è mutato. Ne dobbiamo tener conto, anche nella nostra diffusione del messaggio di fede, specialmente verso i più giovani. Sulle povertà ha già detto tutto Papa Francesco. Parlando al popolo della fede e a tutti gli uomini. Dobbiamo adoperarci perché il virus ci restituisca migliori al futuro. E quindi che diminuiscano le diseguaglianze».
❞ Forse la paura spinge verso la fede, ma la fede è esattamente il contrario della paura