«Siena, la più luminosa e cara»
Il libro Viaggio nelle identità e differenze del nostro Paese in «Immagini dell’Italia» di Pavel Pavlovich Muratov Con la Toscana emblema di un Rinascimento romantico e la città del Palio sintesi di sacra antichità e arte fiorente
Non è un diario di viaggio, né un trattato di storia dell’arte. Pur essendo intervallato da pagine narrative, punteggiate da penetranti osservazioni sui costumi degli abitanti, evita indugi da selettivo reportage.
Questo primo volume di Immagini dell’Italia (tradotto da Alessandro Romano, Adelphi) è un’originalissima opera sinfonica, costruita alternando analisi critiche e incantati ritratti di un Paese colto nella sua varietà. Ne è autore Pavel Pavlovich Muratov (1881 – 1950), un russo eclettico e geniale che acquisì ferrate competenze in materia d’arte e imbastì pure romanzi e pièces teatrali. Ammirevole lo stile, mai proclive a iniziatici specialismi. Non ha torto Rita Giuliani, la curatrice, a presentarlo nella postfazione come «il libro più bello che in Russia sia mai stato dedicato all’Italia», apparso in due parti fra il 1911 e il 1912 e ora edito nella versione definitiva del 1924. Muratov contempla l’Italia attraverso pitture e affreschi che ne rispecchiano il fascino. Tien d’occhio firme celebri e affermate interpretazioni, da Walter Pater a Jacob Burckhardt, da Arthur Symons a Bernard Berenson (per fare qualche nome dell’immensa biblioteca che ha in testa), ma non cade negli estetismi d’uso e distilla a dovere giudizi e preferenze. Capire per immagini significa per lui far tesoro dell’immaginario prodotto da artisti che hanno lasciato segni indelebili e comunicare con evidenza quanto nel lento cammino riesce a fissare della vita in atto. Così la sua screziata Italia rinuncia ad un’unitarietà fittizia e assomma scene geograficamente distinte.
Le città che Muratov passa in rassegna in questo primo tempo sono tutte orgogliose delle loro irriducibili differenze. La prassi istituzionale è, talvolta, accennata di sfuggita, come per la patria del Tintoretto, «tutta affari e parata»: «Non va dimenticato che qui l’epoca aurea concise con un incremento delle vessazioni da parte dello statalismo veneziano». Di contro si staglia il libertino Giacomo Casanova: «l’avventuriero pare saltar fuori in carne e ossa dalle pagine». La memorialistica è molto consultata per la freschezza che contiene. E quando parla di un artista, Muratov non fa a meno di metterne a nudo stranezze. La relazione tra costruzioni e ambiente solo nelle città toscane fa paesaggio ed è «tanto consueta e ordinaria da sembrare un attributo imprescindibile della natura circostante». La comprensione di un’opera ha tutto da guadagnare se indagata nel contesto da cui trae respiro e luce. Così avviene per Mantegna, la cui classicità è debitrice dell’agio concessogli dai signori di Mantova. Così accade per Francesco del Cossa e Cosmè Tura, che a Ferrara potresti incontrarli per le stradine attorno al Castello Estense. A Bologna l’esigente viaggiatore non è conquistato da autori quali il Domenichino, che fanno di tutto per «riuscire graditi».
Approdando a Firenze, finalmente, egli entra nel paradigma umanistico quattrocentesco, il periodo che squaderna i raggiungimenti più alti. Salire per la scalinata che conduce a San Miniato è rifare i passi di Dante con turbamento di esule pellegrino. Ne scaturisce un’empatia che s’insinua nell’animo di chi soffre una simile condizione d’esilio. Malgrado qualche ferita inopportuna Firenze «s’imprime nella memoria in unico colpo d’occhio»: «Non c’è uomo al mondo nel quale questa celeberrima veduta d’insieme non desterebbe un senso di prossimità alla bellezza più sublime». «Bellezza» e «sublime» son termini pregnanti. Il primo non identifica una rappresentazione puramente estetica. E il sublime richiede slancio mistico. La sensibilità romantica trascina Muratov, spingendolo a non rifarsi alla classicità per penetrare la poderosa invenzione di un Rinascimento non periodizzabile con date rigide. Nella scientifica plasticità di Piero della Francesca o nel sereno incedere della Primavera di Botticelli circola un’eccitante filosofia. Da dove scaturirono Donatello e Masaccio? È una semplificante scorciatoia invocare la genialità: la lettura di Adolfo Venturi mette sull’avviso. Certi riferimenti o attribuzioni non son da prendere per oro colato. Il libro si può sfogliare lungo le tappe di un riposante viaggio: non pretende di essere un manuale, né una saccente guida. Sobrie note correggono o chiariscono i punti problematici. Firenze emblematizza il Quattrocento. Gli affreschi di Benozzo Gozzoli a San Gimignano ne sono un perfetto trionfo. Siena è la sintesi dell’«aureo Trecento». Duccio di Buoninsegna sta, con il suo terrestre Oriente, alle origini, prima del solido Giotto?
L’inno di Muratov all’Italia si stempera in pungenti sere invernali nell’appartata Lucca: «Le vigne sono malinconicamente spoglie, e presso le dimore campestri gialleggiano mazzi di pannocchie poste a seccare al sole». Il congedo dalla Toscana, in vista di Roma, interviene a Siena, dove «il presente non è nemico del passato». La città non ha subito offese del tempo: è «uno spaccato del primo Rinascimento ancora vivido, incontaminato e splendido, in cui la vita non si è affatto prosciugata: è solo un po’scolorita, ovattata, rallentata». Pavel ne intesse lodi che si scioglieranno in grato rimpianto: «Fra tutte le reminiscenze dell’Italia, Siena ha la palma della più luminosa e cara. Quando si è ormai lontani dall’Italia, l’immagine della nobilissima città toscana desta, come nessun’altra, la nostalgia di passati, felici pellegrinaggi. In essa si riassume ciò che fa palpitare il cuore: la sacra antichità, l’arte fiorente, i versi danteschi sulle labbra del popolo, la sensazione dell’aria e di una terra satura di raffinato vigore, che da secoli produce placidi ulivi e uve inebrianti».
❞ A Firenze salire a San Miniato è rifare i passi di Dante con turbamento di esule Ne scaturisce un’empatia che s’insinua nell’animo di chi soffre una simile condizione d’esilio