Corriere Fiorentino

«Siena, la più luminosa e cara»

Il libro Viaggio nelle identità e differenze del nostro Paese in «Immagini dell’Italia» di Pavel Pavlovich Muratov Con la Toscana emblema di un Rinascimen­to romantico e la città del Palio sintesi di sacra antichità e arte fiorente

- Di Roberto Barzanti

Non è un diario di viaggio, né un trattato di storia dell’arte. Pur essendo intervalla­to da pagine narrative, punteggiat­e da penetranti osservazio­ni sui costumi degli abitanti, evita indugi da selettivo reportage.

Questo primo volume di Immagini dell’Italia (tradotto da Alessandro Romano, Adelphi) è un’originalis­sima opera sinfonica, costruita alternando analisi critiche e incantati ritratti di un Paese colto nella sua varietà. Ne è autore Pavel Pavlovich Muratov (1881 – 1950), un russo eclettico e geniale che acquisì ferrate competenze in materia d’arte e imbastì pure romanzi e pièces teatrali. Ammirevole lo stile, mai proclive a iniziatici specialism­i. Non ha torto Rita Giuliani, la curatrice, a presentarl­o nella postfazion­e come «il libro più bello che in Russia sia mai stato dedicato all’Italia», apparso in due parti fra il 1911 e il 1912 e ora edito nella versione definitiva del 1924. Muratov contempla l’Italia attraverso pitture e affreschi che ne rispecchia­no il fascino. Tien d’occhio firme celebri e affermate interpreta­zioni, da Walter Pater a Jacob Burckhardt, da Arthur Symons a Bernard Berenson (per fare qualche nome dell’immensa biblioteca che ha in testa), ma non cade negli estetismi d’uso e distilla a dovere giudizi e preferenze. Capire per immagini significa per lui far tesoro dell’immaginari­o prodotto da artisti che hanno lasciato segni indelebili e comunicare con evidenza quanto nel lento cammino riesce a fissare della vita in atto. Così la sua screziata Italia rinuncia ad un’unitarietà fittizia e assomma scene geografica­mente distinte.

Le città che Muratov passa in rassegna in questo primo tempo sono tutte orgogliose delle loro irriducibi­li differenze. La prassi istituzion­ale è, talvolta, accennata di sfuggita, come per la patria del Tintoretto, «tutta affari e parata»: «Non va dimenticat­o che qui l’epoca aurea concise con un incremento delle vessazioni da parte dello statalismo veneziano». Di contro si staglia il libertino Giacomo Casanova: «l’avventurie­ro pare saltar fuori in carne e ossa dalle pagine». La memorialis­tica è molto consultata per la freschezza che contiene. E quando parla di un artista, Muratov non fa a meno di metterne a nudo stranezze. La relazione tra costruzion­i e ambiente solo nelle città toscane fa paesaggio ed è «tanto consueta e ordinaria da sembrare un attributo imprescind­ibile della natura circostant­e». La comprensio­ne di un’opera ha tutto da guadagnare se indagata nel contesto da cui trae respiro e luce. Così avviene per Mantegna, la cui classicità è debitrice dell’agio concessogl­i dai signori di Mantova. Così accade per Francesco del Cossa e Cosmè Tura, che a Ferrara potresti incontrarl­i per le stradine attorno al Castello Estense. A Bologna l’esigente viaggiator­e non è conquistat­o da autori quali il Domenichin­o, che fanno di tutto per «riuscire graditi».

Approdando a Firenze, finalmente, egli entra nel paradigma umanistico quattrocen­tesco, il periodo che squaderna i raggiungim­enti più alti. Salire per la scalinata che conduce a San Miniato è rifare i passi di Dante con turbamento di esule pellegrino. Ne scaturisce un’empatia che s’insinua nell’animo di chi soffre una simile condizione d’esilio. Malgrado qualche ferita inopportun­a Firenze «s’imprime nella memoria in unico colpo d’occhio»: «Non c’è uomo al mondo nel quale questa celeberrim­a veduta d’insieme non desterebbe un senso di prossimità alla bellezza più sublime». «Bellezza» e «sublime» son termini pregnanti. Il primo non identifica una rappresent­azione puramente estetica. E il sublime richiede slancio mistico. La sensibilit­à romantica trascina Muratov, spingendol­o a non rifarsi alla classicità per penetrare la poderosa invenzione di un Rinascimen­to non periodizza­bile con date rigide. Nella scientific­a plasticità di Piero della Francesca o nel sereno incedere della Primavera di Botticelli circola un’eccitante filosofia. Da dove scaturiron­o Donatello e Masaccio? È una semplifica­nte scorciatoi­a invocare la genialità: la lettura di Adolfo Venturi mette sull’avviso. Certi riferiment­i o attribuzio­ni non son da prendere per oro colato. Il libro si può sfogliare lungo le tappe di un riposante viaggio: non pretende di essere un manuale, né una saccente guida. Sobrie note correggono o chiariscon­o i punti problemati­ci. Firenze emblematiz­za il Quattrocen­to. Gli affreschi di Benozzo Gozzoli a San Gimignano ne sono un perfetto trionfo. Siena è la sintesi dell’«aureo Trecento». Duccio di Buoninsegn­a sta, con il suo terrestre Oriente, alle origini, prima del solido Giotto?

L’inno di Muratov all’Italia si stempera in pungenti sere invernali nell’appartata Lucca: «Le vigne sono malinconic­amente spoglie, e presso le dimore campestri gialleggia­no mazzi di pannocchie poste a seccare al sole». Il congedo dalla Toscana, in vista di Roma, interviene a Siena, dove «il presente non è nemico del passato». La città non ha subito offese del tempo: è «uno spaccato del primo Rinascimen­to ancora vivido, incontamin­ato e splendido, in cui la vita non si è affatto prosciugat­a: è solo un po’scolorita, ovattata, rallentata». Pavel ne intesse lodi che si sciogliera­nno in grato rimpianto: «Fra tutte le reminiscen­ze dell’Italia, Siena ha la palma della più luminosa e cara. Quando si è ormai lontani dall’Italia, l’immagine della nobilissim­a città toscana desta, come nessun’altra, la nostalgia di passati, felici pellegrina­ggi. In essa si riassume ciò che fa palpitare il cuore: la sacra antichità, l’arte fiorente, i versi danteschi sulle labbra del popolo, la sensazione dell’aria e di una terra satura di raffinato vigore, che da secoli produce placidi ulivi e uve inebrianti».

❞ A Firenze salire a San Miniato è rifare i passi di Dante con turbamento di esule Ne scaturisce un’empatia che s’insinua nell’animo di chi soffre una simile condizione d’esilio

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«Allegoria degli Effetti del Buon Governo in Città» (1338-1339), Ambrogio Lorenzetti. Parete di destra della Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena

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