Chinatown: senza mascherine stavano cucendo mascherine
Prato: riaperte anche le fabbriche degli orientali. Fuori regola 15 operai, e 8 sono clandestini
Dopo un lockdown lunghissimo, cominciato per tutelarsi prima di quello italiano, gli imprenditori cinesi del settore dell’abbigliamento hanno deciso di riaprire i cancelli delle loro fabbriche. E nel primo giorno di riapertura i finanzieri del Gruppo di Prato hanno denunciato un’imprenditrice tessile cinese che impiegava otto connazionali risultati clandestini: stavano cucendo mascherine non a norma senza però indossarne una. A parte questo primo caso emerso dagli accertamenti dei finanzieri, i lavoratori della Chinatown industriale di Prato — quella nel cosiddetto Macrolotto Uno, a sud della città – ieri hanno cominciato a far capolino nei negozi di confezione di abiti. «Molti di loro — conferma Marco Wong, consigliere comunale pratese di origine cinese che fa da collante fra comunità orientale e istituzioni locali — hanno riaperto i battenti per la loro parte commerciale. La parte produttiva invece è ancora in bilico ed è rimasta per lo più chiusa».
Ma è l’intero settore della moda a subire un’incertezza che permette di riaprire i locali senza aver la sicurezza che la ripartenza sia effettivamente all’orizzonte. Mancano gli ordini. Il problema rimane in questi giorni quello di mancanza della domanda nel mercato. «Sia cinesi che italiani — approfondisce Wong — si
L’attesa Capannoni riaperti in via Pistoiese, ma mancano ancora le commesse
La fuga «Diverse persone raccontano di aver venduto tutto e di essere tornati in Cina»
stanno interrogando su un futuro offuscato da nuvole cupe. Nelle varie chat europee in cui sono coinvolto diverse persone cinesi spiegano di aver mollato l’impresa ed essere tornati in Cina».
Ma questo non è accaduto a Prato, dove il settore dell’abbigliamento guidato dagli orientali l’anno scorso ha superato ufficialmente quello storico pratese — il tessile — per numero di addetti: oltre 20 mila. Il mutuo soccorso fra imprenditori della stessa nazionalità, lo stesso che in passato ha prodotto a Prato un’espansione esponenziale dell’imprenditoria orientale in città, sembra non essere più la carta da poter giocare. «Le generazioni passate sentivano di più questo legame», spiega Wong. Ed effettivamente l’acquisto progressivo di capannoni e macchinari ha permesso alle famiglie cinesi provenienti dalla municipalità Whenzou di effettuare un vero e proprio trust a partire dagli anni Novanta. L’ostacolo principale per poter mettere in atto questa forma di solidarietà economica, al momento, è rappresentato dalla mancanza unanime di richiesta della produzione: i confezionisti sono paralizzati dalla mancanza di ordini per via dei negozi rimasti chiusi in tutto il mondo e mancano fisicamente i compratori esteri, che solitamente si recano a Prato da ogni parte d’Europa per comprare. Fino a quando i lockdown non si esauriranno nel resto del continente — e certamente fino a quando non saranno aperte le frontiere italiane per le persone — sarà dunque difficile che la Chinatown industriale abbia un reale impulso alla produzione.
Intanto però i finanzieri hanno sequestrato 10 mila mascherine non a norma all’interno di un capannone dove — in barba a qualsiasi norma di sicurezza — lavoravano 15 operai cinesi, otto dei quali risultati irregolari. La Finanza, oltre a denunciare l’imprenditrice cinese, ha anche sequestrato ventinove macchinari. Ora sarà la Regione comminare eventualmente i giorni di chiusura alla fabbrica, che rischia lo stop per un mese.