Vita di Giusti
L’eterno fuori corso che piaceva a Capponi e Manzoni
Il monumento al Giusti domina la piazza maggiore di Monsummano (a lui intitolata), spregiosamente di spalle alla seicentesca Basilica della Fontenuova, inaugurata da Ferdinando I de’ Medici. A Monsummano, Giuseppe Giusti era nato nel 1809, malamente avviato agli studi da un precettore religioso che lo tirò su «più a nerbate che con lezioni di latino», convincendolo di non esser buono a nulla. Né gli studi liceali furono più fortunati, sballottato dal Collegio Zuccagni Orlandini di Firenze al Forteguerri di Pistoia e al Reale di Lucca, mentre il Granducato passava di mano (1824) da Ferdinando III al mite Leopoldo II, ribattezzato «Canapone».
Avviato a studiar Diritto all’Università pisana (1833), sui lungarni pisani e al caffè dell’Ussero (luogo risorgimentale poi frequentato dal Fucini e da Carducci), il nostro eterno «fuori corso» costruì il suo più scanzonato repertorio di satira poetica contro il potere granducale, che gli valse richiami formali dalla polizia di Firenze. Non a caso, della stagione pisana è La guigliottina a vapore, versi che lo incoronano nella satira di costume: «Hanno fatto nella China / Una macchina a vapore / Per mandar la guigliottina: / Questa macchina in tre ore / Fa la testa a cento mila Messi in Fila / L’istrumento ha fatto chiasso / E quei preti han presagito / Che il paese passo passo /sarà presto incivilito…».
Ed eccolo, finalmente addottorato, spostarsi a Firenze, dove resterà dieci anni, stringendo intensa amicizia con Gino Capponi che lo introdurrà alla vita culturale e artistica della capitale del Granducato e nei salotti bene. Conoscerà il Vieusseux (amico e conterraneo del Sismondi che aveva frequentato nella villa di Val Chiusa nella stagione pesciatina) e Lorenzo Bartolini che aveva avuto la cattedra di scultura all’Accademia. Ci piace immaginare il Giusti (ospite nel vicino Palazzo Capponi) conversare con l’artista anticanoviano sotto il portico del Brunelleschi in piazza dell’Annunziata. Col Vieusseux, in quel tempo, il Capponi aveva fondato il Giornale agrario toscano.
Insomma il Giusti arriva in una Firenze ormai tappa obbligata del Grand Tour e residenza privilegiata di aristocratici di censo e d’intelletto, noti anche per il loro impegno politico: Ugo Foscolo (del quale non apprezzerà le Ultime lettere di Jacopo Ortis), Shelley, Lamartine e patrioti come Pietro Giordani, Pietro Colletta, Guglielmo Pepe, Massimo D’Azeglio. Ma il Giusti non mancherà di cogliere «le miserie e l’avvilimento politico dell’Italia, divisa e opanni
❞ La dimora dove nacque fu salvata dal crollo da un tempestivo intervento di Giovanni Spadolini col suo Ministero dei Beni Culturali
pressa», trovando in Firenze solo «larve di virtù» e, limitandosi alla Toscana, «basso e feccioso bulicume borbonico a Lucca». Nel ’41, scriverà Il vero ritratto di Dante (per il ritrovamento di un affresco), pretesto per interpretare con ira magnanima il concetto nazionale di Dante Alighieri, verseggiando l’esordio con incedere epico: «Qual grazia a noi ti mostra, / O prima gloria italica, per cui / Mostrò ciò che potea la lingua nostra?».
Nel 1843, in via de’ Banchi, una sera di luglio l’incredibile episodio che lo turberà psicologicamente per i restanti anni: un gatto idrofobo lo morde a una gamba. A ciò darà la colpa di un progressivo debilitante stato di salute che (con la tisi) lo porterà alla morte giovanissimo. Ma non mancherà , nel ’45, di raggiungere il Manzoni a Milano, con la marchesa D’Azeglio e Vittorina Manzoni: un incontro tanto atteso, dal momento che, prima, gli aveva sottoposto i suoi versi, avendone avuto una risposta lusinghiera: «Son chicche che non possono esser fatte che in Toscana, che da lei…».
Nel ’48, mentre a Firenze si celebrano le «quarantottate» con euforia per le strade e al Teatro del Cocomero (attuale Niccolini) il Giusti è deputato all’Assemblea Toscana. Più tardi, dopo l’amara conclusione degli entusiasmi di quella breve stagione, la Toscana — come scritto Matilde Bartolommei Gioli — «sarebbe caduta in un morboso quietismo, ove ogni cosa andava atrofizzando sotto Leopoldo II che, se non annientava il paese con le persecuzioni e la forca, lo uccideva però coi narcotici». Ma intanto il Giusti avrebbe scritto il suo capolavoro, il Sant’Ambrogio, versi che tutti abbiamo mandato a mente: «Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco / per que’ pochi scherzucci di dozstrutta zina/ e mi gabella per antitedesco / perché metto le birbe alla berlina…». Purtroppo, nel marzo del 1850 il Giusti si spengerà nel palazzo dell’amico Gino Capponi, nell’omonima via, allora intitolata a San Sebastiano.
Venendo alla nostra stagione, non va dimenticato il vergognoso episodio che corse la casa del poeta nella sua città: Casa Giusti a Monsummano, sia pure con alterne vicende, giunta ai primi anni Settanta del ‘900, rischiò di andar di