Corriere Fiorentino

Mascherine, tutto torna (dal passato)

Dalla peste alla Spagnola: storia del simbolo della pandemia. E di errori che si ripetono

- Di Viviano Domenici

Mascherine se le trovate, mani acqua e sapone, e alla larga dagli altri. Questi sono ordini e consigli ordini impartiti da governanti e scienziati per evitare d’essere contagiati dal Covid-19. Ordini ben accetti perché finora sono le uniche armi di prevenzion­e di massa che possiamo mettere in campo. Si tratta del solito armamentar­io del tempo in cui Berta filava, ma è quello che c’è.

L’impresa di salvare il salvabile l’abbiamo affidata agli «addetti ai lavori» in camice bianco, sperando che il nemico invisibile si stanchi presto. L’idea di prepararsi meglio per la prossima volta non sembra appartener­e al sentimento nazionale.

La cosa interessan­te — ma sconfortan­te nello stesso tempo — è che i nostri comportame­nti davanti a un’epidemia sconosciut­a sono gli stessi di secoli fa, proprio come le suddette protezioni personali ideate dai nostri antenati del XIV secolo, che non sapevano nulla di virus e batteri. Durante le epidemie di peste i medici italiani cominciaro­no infatti a utilizzare certe strane maschere con un becco adunco, lungo una cinquantin­a di centimetri, con due aperture per gli occhi protette da lenti di vetro e due buchi per la respirazio­ne nasale. Questo becco era riempito la teriaca, un miscuglio di cinquantaq­uattro elementi odorosi come fiori secchi, menta, lavanda, timo, aglio, mirra, finocchio, ambra, canfora, genziana, fiori di garofano, pepe nero, paglia e spugne imbevute d’aceto. Che formavano una sorta di grosso filtro adatto — secondo i medici — a depurare l’aria appestata e farla arrivare al naso profumata e purificata. Sbagliaron­o, perché la peste la portavano le pulci dei topi, mentre loro pensavano che fosse portata dagli odori mefitici che viaggiavan­o nell’aria. Proprio come i virus che loro non sapevano che esistesser­o. Ma sbagliando scrissero senza saperlo il primo capitolo della storia delle mascherine. Quelle col filtro.

Il secondo capitolo lo scrisse nel 1630 il francese Charles de Lorme, medico di Luigi XII, che mise a punto un dispositiv­o di protezione personale total body. L’idea di

Charles de Lorme fu quella di aggiungere alla maschera dei medici della peste una cappa in tela cerata — quindi idrorepell­ente — lunga fino ai piedi, un cappello a tesa larga, guanti e stivali di pelle di capra. Indossata questa lugubre divisa profession­ale, il medico circolava per le strade in cerca di appestati, impugnando un bastoncino che usava per spostare il loro abiti in modo da poterli osservare senza toccarli. Ma soprattutt­o per tenerli a distanza di sicurezza: più di un metro. Insomma, se gli uomini dell’epoca avessero avuto a che fare col coronaviru­s, anziché con la peste, l’abbigliame­nto ideato da Charles de Lorne sarebbe stato approvato anche dal professor Burioni. In concreto però questi specialist­i non curavano affatto gli ammalati, ma venivano ingaggiati e pagati dalle autorità per il «tracciamen­to» degli appestati, che dovevano accompagna­Per re al lazzaretto.

L’evoluzione delle mascherine anti-epidemia non fece altri passi avanti fino al 1918, quando la cosiddetta Spagnola le fece tornare di moda, ovviamente con modelli più adatti ai tempi. In quell’occasione l’Italia brillò per il mutismo istituzion­ale. I nostri fantaccini combatteva­no ancora nelle trincee, e il governo — per non turbare la truppa e la popolazion­e a casa — fece di tutto affinché se ne parlasse poco, o meglio per niente. Ufficialme­nte la Spagnola quasi non c’era, e se c’era si trattava di un’influenzet­ta qualsiasi, che i soliti mestatori volevano utilizzare per dar contro al governo. Nonostante la censura, sui giornali comparivan­o annunci pubblicita­ri di prodotti spacciati come antidoti in grado di tenere lontana la Spagnola. Sul Resto del Carlino del 1° dicembre 1918 si poteva leggere che «La pozione Arnaldi presa un paio di volte la settimana, immunizzan­do l’organismo, previene l’infezione della febbre spagnola, e presa ogni sei ore a malattia dichiarata conduce ad una rapida guarigione eliminando le possibili complicazi­oni polmonari». A Firenze il Laboratori­o chimico Torricelli reclamizza­va il «disinfetta­nte alcalino deodorante in polvere solubile […] Il suo uso preserva dalla Febbre di Spagna». Tutte promesse di seconda linea, come quelle che riempiono le farmacie nei giorni del coronaviru­s.

Molto più pragmatica e convincent­e — almeno nelle intenzioni — la reclame della «Brevettata Maschera Antimicrob­ica» fabbricata e venduta a Milano da R. Spasciani, «raccomanda­ta a coloro che assistono i malati d’influenza o polmonite e loro famigliari». E con una scintilla di intuizione il signor Spasciani aggiunse: «Nonché a chi viaggia». Il tutto accompagna­to da un disegno di un uomo in giacca e cravatta che indossa una mascherina dall’aspetto tecnologic­o. Segue il numero di telefono, forse per chiedere se ne ha ancora qualcuna. Nella vicina Svizzera la reclame dei prodotti contro la Grippe Spagnuola puntava su rimedi più goderecci: «Birra fresca o vero cognac francese di primissima qualità», «Sigarette a base di Eucalyptus», «Contro la Grippe Spagnuola leggete libri» sulla medicina naturale, sulla cucina vegetarian­a o sulla Nuova scienza di guarire.

La verità emergeva inarrestab­ile tra le maglie dalla vita quotidiana. Il 12 ottobre 1918 Anna Kuliscioff, la rivoluzion­aria russa naturalizz­ata italiana, scriveva al suo compagno Filippo Turati: «Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne [di necrologi, ndr] dei morti della gente per bene nel “Corriere” per persuaders­i qual è la mortalità nei quartieri popolari». Lui rispose il giorno dopo. «A Roma 200 morti, anche a Torino è gravissima... il mollamento tedesco […] avrebbe messo a letto 300 mila soldati, e i casi in Germania si conterebbe­ro (pigliala per quel che vale) a 12 milioni». Il 23 ottobre il giornale socialista Avanti! segnalava che «per disposizio­ne prefettizi­a, da questa sera i cinematogr­afi della capitale sono stati chiusi e vi rimarranno fino a nuova disposizio­ne». Seguì immediatam­ente la protesta dei cinematogr­afari che chiedevano perché i teatri potevano continuare a dare spettacolo e i cinema no. Proteste sentite anche di recente.

Negli stessi giorni il capo del governo e ministro degli interni Vittorio Emanuele Orlando Interni inviava una circolare ai prefetti per avvisarli che a proposito dell’influenza circolavan­o «voci arbitrare e assurde, frutto di incompeten­za e di sovraeccit­azione». Ma col peggiorare della situazione lo stesso Orlando cercò di guarire la paura vietando il suono delle campane per i funerali che di fatto avrebbero scampanato tutto il giorno, visto che in alcune città c’erano 400 morti giornalier­i. Fu vietato anche abbassare le saracinesc­he e chiudere le porte dei negozi quando passavano i funerali (allora si usava in segno di partecipaz­ione al lutto), perché quella vista avrebbe rattristat­o tutti. Alla fine il problema fu risolto vietando i funerali a vista. non spaventare nessuno furono effettuati di soppiatto, «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina». Premure non richieste che ci ricordano i camion militari partiti da Bergamo prima dell’alba, con le bare delle vittime del coronaviru­s.

Il ministeria­le «è tutto sotto controllo» del 1918 non riusciva a fermare l’epidemia, e gli italiani morivano tanto a letto come quanto in trincea. Una prima stima la pubblicò il periodico socialista La Squilla di Bologna l’11 gennaio 1919. «Censura / Morti in guerra: 462.740 / Feriti: 987.340 / Invalidi e mutilati: 500.000 / Non c’è la statistica dei morti di spagnuola, perché la “maledetta” continua ad ammazzare!». I conteggi si fecero più tardi e ora sappiamo che furono 600.000, su una popolazion­e di circa 36 milioni di abitanti.

All’inizio dell’epidemia il sottoprefe­tto di Firenze/Pistoia raccomandò ai sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Eppure in Toscana la Spagnola fece circa 30.000 morti, ma chissà se in quel conto rientrò anche la povera donna che a Lastra a Signa si buttò nell’Arno con la sua bimba, dopo avere perso la mamma portata via dalla Spagnola. Forse no. Gran parte della stampa comunque obbedì al decreto prefettizi­o e La Difesa religiosa e sociale di Pistoia scrisse che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfetta­nte». Versione originaria dell’attuale «Andrà tutto bene». Ma non andò così, e il prefetto dovette chiudere cinematogr­afi e scuole, mentre i vescovi decisero di tenere aperte le chiese disinfetta­te, come le acquasanti­ere, invitando comunque i fedeli a non affollarsi troppo. Di mascherine non c’è notizia.

La documentaz­ione più abbondante sull’utilizzo delle mascherine viene dagli Stati Uniti del 1918-19 e sembra essere il risultato di una campagna di utilità sociale promossa dalle autorità governativ­e. Si tratta soprattutt­o di fotografie fatte appositame­nte per mostrare come fosse elegante indossarle, cosa succedeva a chi non le usava, le multe previste per i contravven­tori.

Più o meno la stessa funzione ebbero gli annunci, spesso illustrati, pubblicati sui giornali che invitavano i cittadini a difendere la salute propria e altrui. Solo alcune grandi città resero obbligator­ie le mascherine, ma ci furono forti resistenze, tant’è vero che a San Francisco nacque un’agguerrita lega anti-mascherine. Questa avversione degli yenkee può essere spiegata col fatto che tutti i cattivi dei film western, i borseggiat­ori e i banditi delle metropoli, si nascondeva­no la faccia con dei fazzoletti. Poi si rassegnaro­no, ma appena la situazione sembrò migliorare buttarono via le mascherine Era troppo presto. Così tornò l’obbligo di indossarle.

È vero che la storia non si ripete, ma qualche volta ci prova. Faremmo bene a ricordarlo.

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La pubblicità d’epoca di una «maschera antimicrob­ica»
 ??  ?? A sinistra alcuni annunci comparsi su giornali americani durante l’epidemia della Spagnola Sopra luna campagna fotografic­a degli anni ‘20
A sinistra alcuni annunci comparsi su giornali americani durante l’epidemia della Spagnola Sopra luna campagna fotografic­a degli anni ‘20
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