Mascherine, tutto torna (dal passato)
Dalla peste alla Spagnola: storia del simbolo della pandemia. E di errori che si ripetono
Mascherine se le trovate, mani acqua e sapone, e alla larga dagli altri. Questi sono ordini e consigli ordini impartiti da governanti e scienziati per evitare d’essere contagiati dal Covid-19. Ordini ben accetti perché finora sono le uniche armi di prevenzione di massa che possiamo mettere in campo. Si tratta del solito armamentario del tempo in cui Berta filava, ma è quello che c’è.
L’impresa di salvare il salvabile l’abbiamo affidata agli «addetti ai lavori» in camice bianco, sperando che il nemico invisibile si stanchi presto. L’idea di prepararsi meglio per la prossima volta non sembra appartenere al sentimento nazionale.
La cosa interessante — ma sconfortante nello stesso tempo — è che i nostri comportamenti davanti a un’epidemia sconosciuta sono gli stessi di secoli fa, proprio come le suddette protezioni personali ideate dai nostri antenati del XIV secolo, che non sapevano nulla di virus e batteri. Durante le epidemie di peste i medici italiani cominciarono infatti a utilizzare certe strane maschere con un becco adunco, lungo una cinquantina di centimetri, con due aperture per gli occhi protette da lenti di vetro e due buchi per la respirazione nasale. Questo becco era riempito la teriaca, un miscuglio di cinquantaquattro elementi odorosi come fiori secchi, menta, lavanda, timo, aglio, mirra, finocchio, ambra, canfora, genziana, fiori di garofano, pepe nero, paglia e spugne imbevute d’aceto. Che formavano una sorta di grosso filtro adatto — secondo i medici — a depurare l’aria appestata e farla arrivare al naso profumata e purificata. Sbagliarono, perché la peste la portavano le pulci dei topi, mentre loro pensavano che fosse portata dagli odori mefitici che viaggiavano nell’aria. Proprio come i virus che loro non sapevano che esistessero. Ma sbagliando scrissero senza saperlo il primo capitolo della storia delle mascherine. Quelle col filtro.
Il secondo capitolo lo scrisse nel 1630 il francese Charles de Lorme, medico di Luigi XII, che mise a punto un dispositivo di protezione personale total body. L’idea di
Charles de Lorme fu quella di aggiungere alla maschera dei medici della peste una cappa in tela cerata — quindi idrorepellente — lunga fino ai piedi, un cappello a tesa larga, guanti e stivali di pelle di capra. Indossata questa lugubre divisa professionale, il medico circolava per le strade in cerca di appestati, impugnando un bastoncino che usava per spostare il loro abiti in modo da poterli osservare senza toccarli. Ma soprattutto per tenerli a distanza di sicurezza: più di un metro. Insomma, se gli uomini dell’epoca avessero avuto a che fare col coronavirus, anziché con la peste, l’abbigliamento ideato da Charles de Lorne sarebbe stato approvato anche dal professor Burioni. In concreto però questi specialisti non curavano affatto gli ammalati, ma venivano ingaggiati e pagati dalle autorità per il «tracciamento» degli appestati, che dovevano accompagnaPer re al lazzaretto.
L’evoluzione delle mascherine anti-epidemia non fece altri passi avanti fino al 1918, quando la cosiddetta Spagnola le fece tornare di moda, ovviamente con modelli più adatti ai tempi. In quell’occasione l’Italia brillò per il mutismo istituzionale. I nostri fantaccini combattevano ancora nelle trincee, e il governo — per non turbare la truppa e la popolazione a casa — fece di tutto affinché se ne parlasse poco, o meglio per niente. Ufficialmente la Spagnola quasi non c’era, e se c’era si trattava di un’influenzetta qualsiasi, che i soliti mestatori volevano utilizzare per dar contro al governo. Nonostante la censura, sui giornali comparivano annunci pubblicitari di prodotti spacciati come antidoti in grado di tenere lontana la Spagnola. Sul Resto del Carlino del 1° dicembre 1918 si poteva leggere che «La pozione Arnaldi presa un paio di volte la settimana, immunizzando l’organismo, previene l’infezione della febbre spagnola, e presa ogni sei ore a malattia dichiarata conduce ad una rapida guarigione eliminando le possibili complicazioni polmonari». A Firenze il Laboratorio chimico Torricelli reclamizzava il «disinfettante alcalino deodorante in polvere solubile […] Il suo uso preserva dalla Febbre di Spagna». Tutte promesse di seconda linea, come quelle che riempiono le farmacie nei giorni del coronavirus.
Molto più pragmatica e convincente — almeno nelle intenzioni — la reclame della «Brevettata Maschera Antimicrobica» fabbricata e venduta a Milano da R. Spasciani, «raccomandata a coloro che assistono i malati d’influenza o polmonite e loro famigliari». E con una scintilla di intuizione il signor Spasciani aggiunse: «Nonché a chi viaggia». Il tutto accompagnato da un disegno di un uomo in giacca e cravatta che indossa una mascherina dall’aspetto tecnologico. Segue il numero di telefono, forse per chiedere se ne ha ancora qualcuna. Nella vicina Svizzera la reclame dei prodotti contro la Grippe Spagnuola puntava su rimedi più goderecci: «Birra fresca o vero cognac francese di primissima qualità», «Sigarette a base di Eucalyptus», «Contro la Grippe Spagnuola leggete libri» sulla medicina naturale, sulla cucina vegetariana o sulla Nuova scienza di guarire.
La verità emergeva inarrestabile tra le maglie dalla vita quotidiana. Il 12 ottobre 1918 Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria russa naturalizzata italiana, scriveva al suo compagno Filippo Turati: «Qui l’epidemia è in aumento continuo, a Desio infierisce non meno che a Milano; basta vedere le tre colonne [di necrologi, ndr] dei morti della gente per bene nel “Corriere” per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari». Lui rispose il giorno dopo. «A Roma 200 morti, anche a Torino è gravissima... il mollamento tedesco […] avrebbe messo a letto 300 mila soldati, e i casi in Germania si conterebbero (pigliala per quel che vale) a 12 milioni». Il 23 ottobre il giornale socialista Avanti! segnalava che «per disposizione prefettizia, da questa sera i cinematografi della capitale sono stati chiusi e vi rimarranno fino a nuova disposizione». Seguì immediatamente la protesta dei cinematografari che chiedevano perché i teatri potevano continuare a dare spettacolo e i cinema no. Proteste sentite anche di recente.
Negli stessi giorni il capo del governo e ministro degli interni Vittorio Emanuele Orlando Interni inviava una circolare ai prefetti per avvisarli che a proposito dell’influenza circolavano «voci arbitrare e assurde, frutto di incompetenza e di sovraeccitazione». Ma col peggiorare della situazione lo stesso Orlando cercò di guarire la paura vietando il suono delle campane per i funerali che di fatto avrebbero scampanato tutto il giorno, visto che in alcune città c’erano 400 morti giornalieri. Fu vietato anche abbassare le saracinesche e chiudere le porte dei negozi quando passavano i funerali (allora si usava in segno di partecipazione al lutto), perché quella vista avrebbe rattristato tutti. Alla fine il problema fu risolto vietando i funerali a vista. non spaventare nessuno furono effettuati di soppiatto, «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina». Premure non richieste che ci ricordano i camion militari partiti da Bergamo prima dell’alba, con le bare delle vittime del coronavirus.
Il ministeriale «è tutto sotto controllo» del 1918 non riusciva a fermare l’epidemia, e gli italiani morivano tanto a letto come quanto in trincea. Una prima stima la pubblicò il periodico socialista La Squilla di Bologna l’11 gennaio 1919. «Censura / Morti in guerra: 462.740 / Feriti: 987.340 / Invalidi e mutilati: 500.000 / Non c’è la statistica dei morti di spagnuola, perché la “maledetta” continua ad ammazzare!». I conteggi si fecero più tardi e ora sappiamo che furono 600.000, su una popolazione di circa 36 milioni di abitanti.
All’inizio dell’epidemia il sottoprefetto di Firenze/Pistoia raccomandò ai sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Eppure in Toscana la Spagnola fece circa 30.000 morti, ma chissà se in quel conto rientrò anche la povera donna che a Lastra a Signa si buttò nell’Arno con la sua bimba, dopo avere perso la mamma portata via dalla Spagnola. Forse no. Gran parte della stampa comunque obbedì al decreto prefettizio e La Difesa religiosa e sociale di Pistoia scrisse che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfettante». Versione originaria dell’attuale «Andrà tutto bene». Ma non andò così, e il prefetto dovette chiudere cinematografi e scuole, mentre i vescovi decisero di tenere aperte le chiese disinfettate, come le acquasantiere, invitando comunque i fedeli a non affollarsi troppo. Di mascherine non c’è notizia.
La documentazione più abbondante sull’utilizzo delle mascherine viene dagli Stati Uniti del 1918-19 e sembra essere il risultato di una campagna di utilità sociale promossa dalle autorità governative. Si tratta soprattutto di fotografie fatte appositamente per mostrare come fosse elegante indossarle, cosa succedeva a chi non le usava, le multe previste per i contravventori.
Più o meno la stessa funzione ebbero gli annunci, spesso illustrati, pubblicati sui giornali che invitavano i cittadini a difendere la salute propria e altrui. Solo alcune grandi città resero obbligatorie le mascherine, ma ci furono forti resistenze, tant’è vero che a San Francisco nacque un’agguerrita lega anti-mascherine. Questa avversione degli yenkee può essere spiegata col fatto che tutti i cattivi dei film western, i borseggiatori e i banditi delle metropoli, si nascondevano la faccia con dei fazzoletti. Poi si rassegnarono, ma appena la situazione sembrò migliorare buttarono via le mascherine Era troppo presto. Così tornò l’obbligo di indossarle.
È vero che la storia non si ripete, ma qualche volta ci prova. Faremmo bene a ricordarlo.