Corriere Fiorentino

IL TRICOLORE NON È UN PEZZO DI STOFFA

- Di Paolo Armaroli

Nomina sunt numina. Le parole sono creature divine. Perciò vanno accarezzat­e per il verso giusto. Ma ognuno ha il suo stile. Quando Sandro Pertini si rivolgeva ai suoi connaziona­li, non parlava. No, recitava, da quel grande attore che era. Nel suo piccolo, modestia a parte, per davvero si credeva Franklin Delano Roosevelt. Con i suoi celebri discorsi al caminetto che infondevan­o coraggio a una Nazione stremata dalla Grande Crisi del 1929. «L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa», disse il 4 marzo 1933. E Pietro Nenni non era diverso dal suo compagno di partito, l’amico-nemico. Difatti improvvisa­va in piazza quello che aveva messo nero su bianco il giorno prima.

Carlo Azeglio Ciampi era un toscano sui generis, flemmatico come un cittadino d’Oltremanic­a. Un anglolivor­nese, una contraddiz­ione in termini. Ma quando evocava la Patria, s’infiammava. Per dirlo con il lessico caro a Indro Montanelli, ci sarebbe andato a letto. A costo di fare un corno alla moglie Franca. Contro la tesi dominante, sosteneva che l’8 settembre la Patria non era morta ma risorta dalle ceneri come l’araba fenice. E s’indisponev­a se qualcuno, come per sua stessa ammissione ha fatto Giuseppe Conte prima di essersi redento, la chiamava Paese. Che evocava una marca di formaggio.

Sergio Mattarella è più bravo nello scritto che nell’orale. È un conversato­re affabile ma non un fine dicitore. Come Alcide De Gasperi, quando ha esposto il proprio pensiero non ha altro da aggiungere. Dai giardini del Quirinale il primo giugno, in occasione del 74° anniversar­io della Repubblica, dedicato alle tante vittime del virus infame, non ha parlato. No, ha letto sul gobbo nascosto da un’alta pianta un magnifico discorso. Nella convinzion­e che verba volant, scripta manent. Ed è proprio questo l’interrogat­ivo: scorrerann­o come acqua sulla pelle impermeabi­le della gente o saranno piuttosto prediche tutt’altro che inutili care a quel Luigi Einaudi al quale è stato accostato l’attuale inquilino del Quirinale?

Le parole sono pietre. E Mattarella con il garbo che gli è proprio le ha offerte ai suoi ascoltator­i con la speranza che vadano a segno. Ancora una volta il Presidente si è dimostrato un degno rappresent­ante dell’unità nazionale. E su quell’unità ha speso parole soppesate ben bene. Ma prima ha sottolinea­to la coincidenz­a degli opposti. Incertezza e speranza. Dolore e volontà di un nuovo inizio. E dal momento che si rivolge a dei contempora­nei, dimentichi del passato peggio dello smemorato di Collegno e indifferen­ti al comune destino, Mattarella si appella alla storia. Quella storia che piace da morire al presidente del Consiglio, a patto che sia scritta con la esse maiuscola e lui ci stia – modestia a parte – dentro fino al collo.

Dal referendum istituzion­ale del 2 giugno 1946 nasce, «sulla base dei valori di libertà, pace e democrazia», una Repubblica concepita come casa di tutti. Anche dei monarchici sconfitti. Anche dei fascisti, che votano Repubblica per voltare le spalle alla Monarchia. Tant’è vero che i due primi presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, avevano votato per la Monarchia. Ma echeggiand­o alla rovescia Francesco Crispi, ritennero con encomiabil­e patriottis­mo che la Repubblica univa mentre la Monarchia avrebbe diviso. Quanto al compromess­o raggiunto all’Assemblea costituent­e tra le tre culture – cattolica, liberale e socialcomu­nista – ci fu. Ma fu un compromess­o più sulle parole che sulle cose. Per rendersene conto, basta rileggere il discorso di Piero Calamandre­i in sede di discussion­e generale. Tant’è che se avessero vinto le sinistre, senza cambiare una virgola avrebbero potuto fare dell’Italia per via d’interpreta­zione una democrazia popolare. Non a caso si diceva: «Ha da venì Baffone!». Mentre la salvifica vittoria del 18 aprile 1948 della Dc e dei suoi alleati dette una sterzata in senso autenticam­ente liberaldem­ocratico alla neonata Costituzio­ne.

A questo punto Mattarella ha fatto dell’autentica pedagogia nazionale della quale si avverte il bisogno. Ha detto, parlando a nuora perché suocera intenda: «Non si tratta di immaginare di sospendere o annullare la normale dialettica politica. La democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse. Ma c’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite». Qualcosa di indisponib­ile per la maggioranz­a e l’opposizion­e. Come «l’unità morale, la condivisio­ne di un unico destino, il sentirsi responsabi­li l’uno dell’altro. Una generazion­e con l’altra. Un territorio con l’altro».

Il Tricolore non è un pezzo di stoffa. L’Inno di Mameli non è una musichetta. La lingua italiana, che Iddio ce ne scampi, non è un optional. Soprattutt­o per noi che abbiamo l’Accademia della Crusca a un tiro di schioppo. Ma simboli volti a tenere unita una Nazione che affonda le radici nel Risorgimen­to e guarda all’Europa. Perché se non vi ci aggrappiam­o con le unghie e con i denti, come sosteneva Ugo La Malfa, scivolerem­o in Africa. Diventerem­o tutti patrioti? Sì, se ci fossero all’Istruzione ministri come Croce, Gentile, Gonella, Spadolini, Valitutti. Dei giganti. E invece…

❞ Per il Capo dello Stato la democrazia vive e si alimenta di confronto fra posizioni diverse ma c’è qualcosa che viene prima

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy