«Anche noi scienziati dobbiamo saper dire: questa cosa non la so»
Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Negri: «Le riaperture delle regioni? È vero che in Lombardia ci sono più contagi, ma ogni tampone fa caso a sé»
«A paziente che mi chiede informazioni non posso dire “non lo so”, ma in tv sì, posso farlo. Ci vuole più prudenza sia da parte dei media che da parte di noi medici». A Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Negri, le liti televisive tra virologi non sono piaciute per nulla.
«Quel che ha scritto Massimo Gramellini sul Corriere della Sera l’ho trovato provocatorio, ma in fondo giusto: le persone chiedono risposte agli scienziati, ma gli scienziati a volte rispondono anche quando non hanno quelle risposte. Forse in molti casi sarebbe meglio se rispondessero come faceva Enrico Cuccia: “No comment”». Il professor Giuseppe Remuzzi, nefrologo e direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, è uno tra i più grandi scienziati in Italia e nel mondo. In questi giorni di guerra tra medici che salgono alla ribalta con affermazioni che dividono l’opinione pubblica, fino a creare dei partiti di virologi, fa un appello alla prudenza a tutta la comunità scientifica. E fa un elogio della complessità. «Di contro, da medico è difficile dire “no comment” a un paziente che mi fa delle domande — prosegue Remuzzi — Devo rispondergli, e se non sono in grado devo dire: “Non lo so”».
Professor Remuzzi, in questa gara di scienziati che sembrano dire cose diverse, le persone si sentono smarrite. Però hanno comunque diritto a fare domande. E a chiedere risposte.
«I cittadini vogliono sapere, ci fanno domande e si aspettano risposte. Forse noi dovremmo limitare i nostri interventi, dovremmo essere più cauti, evitare di parlare quando non abbiamo niente di nuovo da dire, limitare le apparizioni in tv. Però, in fondo, se ci andiamo è perché qualcuno ci invita e, se lo fa, è perché le persone vogliono sapere. Così torniamo al problema iniziale».
Quindi è un corto circuito?
«Direi che è un dilemma complicato. Forse sarebbe saggio evitare quelle situazioni in cui dobbiamo parlare di cose molto complesse e abbiamo solo due minuti. Anche i media dovrebbero avere maggiore attenzione: più di un mese fa ho detto che i malati e la malattia stavano cambiando, e un giornale mi ha attribuito il concetto che il virus era cambiato».
Questo è il tema del dibattito di questi giorni. È cambiata la malattia? È cambiato il virus? Cosa si può dire e cosa non ancora?
«La malattia è diversa da cinque settimane fa, ma non è detto che il virus sia cambiato».
Perché è cambiata la malattia?
«La prima certezza è che sappiamo per cosa non è cambiata: non è vero che abbiamo imparato a curarla meglio. Sì, qualche piccolo miglioramento c’è stato, ma non decisivo, dettagli che non cambiano la storia. Sta di fatto però che i tamponi oggi rilevano quasi sempre una carica virale molto più bassa che nei mesi scorsi, non abbiamo nuovi malati gravi, nei pronto soccorso non arrivano pazienti con difficoltà respiratorie. Ci possono essere tanti motivi per cui la carica virale è diminuita, e tra questi di certo ci sono le mascherine, il distanziamento, il fatto che ci laviamo le mani».
Il caldo può aver inciso in
❞ Forse dovremmo limitare le nostre apparizioni sui media ed evitare di parlare quando non abbiamo niente di nuovo da dire
❞ La malattia è cambiata: la sua carica virale è più bassa Ma non è vero che abbiamo imparato a curarla meglio: sono cambiati soltanto alcuni dettagli
modo indiretto? Ad esempio, visto che si starnutisce di meno si rischia di trasmettere di meno il contagio.
«Credo di sì...».
Crede, quindi non è una certezza?
«Esatto, noi esperti bisogna essere attenti a come si usano le parole e distinguere le certezze dalle ipotesi. Io credo che l’ambiente, a partire dai raggi ultravioletti, possa incidere sull’epidemia. Ad esempio, in Italia ce ne sono state tre apparentemente distinte, una al Nord, una al Centro e una al Sud: ma credo che sia la stessa epidemia che sia entrata in rapporto con l’ambiente in modo diverso, come ci suggerisce il professor Donato Greco. Sono stati tantissimi i lombardi che a inizio marzo sono “fuggiti” nel Sud Italia, senza particolari conseguenze».
Sulla possibile mutazione del virus, cosa si può dire?
«Quasi tutti gli studi più recenti indicano che non è mutato. Ci sono due ricerche che invece ci suggeriscono che sia mutato in peggio e sia diventato più resistente agli antivirali. Un caso rilevato dal professor Arnaldo Caruso, ma anche da una ricerca più ampia di Hong Kong, ha fatto emergere invece un virus più debole. Per questo sembra che noi scienziati diciamo cose diverse, ma la realtà è che la maggior parte delle ricerche ci dice che il virus non è mutato, ma ci sono evidenze di possibili e opposte mutazioni».
Diventa difficile spiegarlo alle persone comuni.
«La gente capisce se abbiamo il tempo di spiegarlo. È già difficile farlo in tv, è impossibile su Facebook, che io non guardo mai, altrimenti non dormirei più. Lì davvero uno vale uno, nel senso peggiore».
Parliamo di attualità. Molti, a partire dal nostro governatore Enrico Rossi, temono che la riapertura della Lombardia possa portare alla risalita dei contagi anche in altre regioni. Lei cosa pensa?
«È difficile rispondere. È vero che la Lombardia ha molti più casi delle altre regioni, ma il risultato di un tampone non è bianco o nero: torno a ripetere che va valutata la carica virale di ciascun caso. Credo però che nella seconda metà di giugno avremo delle risposte certe, mentre ora sembra di poter dire che le riaperture di maggio non hanno portato conseguenze negative».
E sul prossimo autunno che prospettive ci sono?
«Ecco, noi oggi possiamo dire con certezza, grazie alla letteratura e all’osservazione clinica consistente, che la malattia è cambiata. Possiamo dire che la mutazione del virus non sembra esserci, ma ci sono osservazioni che possono far supporre diversamente. Sul prossimo autunno invece nessuno può davvero prevedere né un ritorno del contagio, né negare che ci sarà. Su ottobre bisogna rispondere come Ernico Cuccia: “No comment”».