Corriere Fiorentino

OPERE DAI MUSEI ALLE CHIESE MEGLIO IL BUONSENSO DELLE TROVATE ARTIFICIOS­E

- Di Roberto Barzanti

Se assunta come regola generale l’intenzione abbozzata da Erike Schmidt, il loquace direttore degli Uffizi, di «restituire» la Pala Rucellai di Duccio alla sua primitiva collocazio­ne in Santa Maria Novella provochere­bbe uno sconquasso di incalcolab­ile portata. Siccome a pronunciar­la è stato il presidente del Fondo Edifici di Culto, proprietar­io di oltre 800 chiese italiane, sarebbe stata opportuna un’avveduta prudenza. E non solo per il conflitto di interessi che si delinea, ma perché la questione si inserisce in problemati­che di estrema delicatezz­a. Non desidero richiamare gli aspetti di ordine giuridico che possono suscitare o resuscitar­e controvers­ie a non finire. L’interpreta­zione che Pietro De Marco ha esposto nell’intervento pubblicato su queste pagine il 4 giugno (Le opere dei musei: va bene restituirl­e alle chiese, con qualche avvertenza) è assai unilateral­e. Riprendo solo taluni temi di ordine

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culturale: inerenti cioè alla funzione dei musei oggi e al conseguime­nto ottimale della salvaguard­ia e dell’intelligib­ilità delle opere. Che effetti produrrebb­e un sistematic­o rientro dei beni indemaniat­i a seguito della legislazio­ne del 1866-7 nei loro presunti originari contesti? Per il caso sollevato si dovrebbe almanaccar­e su congetture fantasiose, anche per la drastica ristruttur­azione intervenut­a di una sede non più adibita al culto. Tanto per fare qualche esempio – prescinden­do dal trattament­o speciale assicurato ai beni culturali ecclesiast­ici – si ammira all’Accademia di Venezia La pala di San Giobbe di Bellini che era appunto a San Giobbe. Sta a Brera una Madonna di Piero della Francesca dipinta per Urbino (San Bernardino). Venendo più vicini a noi, anzi vicinissim­i, l’Adorazione di Gentile da Fabriano, ora agli Uffizi, spiccava a Santa Trinita, come la Maestà di Cimabue. Il cui Crocifisso fu riportato al convento di Santa Croce giusto in tempo per essere alluvionat­o nel 1966: pensare che se ne stava tranquillo al centro della prima sala degli Uffizi, allestita da Gardella Michelucci e Scarpa nel 1956. Se la Pala Rucellai prendesse il volo si mutilerebb­e uno dei più fulgidi assetti della museologia italiana. Cesare Brandi non si dette mai pace per la deportazio­ne a Firenze da Siena dell’Annunciazi­one (1330) di Simone Martini in cambio di «due telucce» di Luca Giordano. Chiudo parentesi. L’orientamen­to auspicato da Schmidt è giustifica­bile solo sulla base di chiare motivazion­i culturali. Altrimenti si presterebb­e a innescare un gioco dell’oca dagli esiti discutibil­issimi. È consigliab­ile ricorrere al buonsenso più che sedurre con trovate artificios­e. È vero che l’eccessivo storicismo che ha segnato la prassi italiana si è tradotto in un paralizzan­te immobilism­o, accettabil­e per templi intoccabil­i e collezioni dotate di un’organicità documentar­ia da non infrangere, ma non è utile se si vuol ripensare il modello di museo finora di gran lunga prevalente.

Le due tendenze da combattere – è stato detto – sono la sacralizza­zione dei musei e la parallela musealizza­zione delle chiese. Spostando qua e là beni preparati per una pievina di campagna o per un’isolata chiesola non si reca un beneficio né alla fruizione né alla conoscenza e neppure ad una sentita devozione. Sappiamo che i musei sono nati pregni di ideologie da propaganda­re: per pomposi disegni di imperialis­mo politico o per esibire con orgoglio civico nobili radici identitari­e. Ora è il caso di tenere a criterio una sana e pluralisti­ca laicità, che favorisca l’istituzion­e di spazi attrezzati per scopi didattici e filologica classifica­zione di testi necessari per capire storie nelle quali s’intreccian­o confession­i e stili, ambizioni e gusti. Un’acrimonia anticleric­ale di stampo giurisdizi­onalista mi pare del tutto smentita dalle norme vigenti. E anacronist­ico sarebbe un asfittico monoconfes­sionalismo che puntasse a privare un museo, percorribi­le a passo lento, di cose che invitino a comprender­e l’intersecar­si di sensibilit­à e predilezio­ni, di fedi e di sentimenti. I fattori estetici hanno messo in secondo piano dimensioni che meritano più attenzione. E le trasformaz­ioni che s’intravedon­o fondamenta­li per il dopo-pandemia, per un’epoca che dovrà inventare parametri e ritmi meno vorticosi, più calmi e umili, spingono a costruire, o ricostruir­e, musei specializz­ati, concretizz­ando un punto dell’innovativa definizion­e tanto discussa che l’Italia ha proposto senza fortuna per l’aggiorname­nto della Convenzion­e di Faro: il museo «effettua ricerche sulle testimonia­nze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipaz­ione e il benessere della comunità». Insomma musei-laboratori­o in rete, capaci di svolgere la loro missione con mezzi adeguati ed esaltando confronti, estro produttivo, moderna ricerca. Una Madonna di Giovanni di Paolo parlerà con materna sollecitud­ine a tutti i visitatori, e sarà amata più che se ne stesse reclusa in una cappella abitata secoli fa quale primo contesto del suo peregrinar­e. C’è da rallegrars­i per segni che hanno precisato e frenato. L’arcivescov­o Betori è stato freddino di fronte alla «provocazio­ne» di Schmidt. Il quale ha subito dichiarato di avere in cantiere una mostra di opere di committenz­a ecclesiale, custodite nei capienti depositi e ignote ai più. È questa la strada principale da percorrere.

❞ L’orientamen­to auspicato dal direttore degli Uffizi è giustifica­bile solo sulla base di chiare motivazion­i culturali

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