Bini Smaghi: la politica cambi strada, serve competenza non appartenenza
L’economista e direttore della Fondazione Pecci «Università, ricerca, tecnologia: è l’ora di investire»
Occorre «competenza, non appartenenza. Per ripensare Firenze e la Toscana». Parola dell’economista fiorentino Lorenzo Bini Smaghi. «Non solo Firenze, tutta la Toscana è vittima del suo successo. Il lockdown è stato penalizzante per chi puntava sul turismo di massa. La lezione è che dobbiamo ripensare il modello di sviluppo». Ma la nostra classe dirigente è all’altezza del compito? È il tema posto da Andrea Ceccherini nell’intervista di domenica sul Corriere Fiorentino. «Deve esserlo o diventarlo, ma per farlo bisogna cambiare metodo: saper scegliere un team di qualità e concretezza, non su base di fedeltà politica ma di competenza», dice Bini Smaghi.
Ripartire, cambiando il nostro modello di sviluppo. Guardando alla ricerca, alla tecnologia, alla diversificazione. Senza più fare del turista l’unico punto di riferimento. Ad auspicarlo è l’economista fiorentino Lorenzo Bini Smaghi, direttore della Fondazione Pecci di Prato, già presidente della Fondazione Palazzo Strozzi e membro del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea. Ma per riuscire a ripensare le nostre città e la nostra regione, secondo Bini Smaghi, sono necessarie alcune premesse: avere capacità di analisi, affidarsi alla competenza e non all’appartenenza, puntare sui giovani e abbandonare gli alibi. A partire dalla politica.
Lorenzo Bini Smaghi, con quale stato d’animo sta vivendo questa stagione di crisi e anche di smarrimento del nostro Paese?
«È un momento di rabbia e di frustrazione. E, da economista, dico che il motivo è che non ci sono i dati: ci accontentiamo di macro-dati su decessi, contagiati e ricoverati, ma a distanza di più di tre mesi dallo scoppio dell’epidemia, non sappiamo con esattezza chi si sia ammalato, dove, come. C’è carenza di informazione e elaborazione, siamo di fronte a un mare tutto uguale, senza specificità di analisi».
Può essere questo il motivo per cui la pandemia ha messo in discussione tutti gli aspetti della vita pubblica italiana?
«Una carenza di analisi fa sì che non si comprendano le decisioni. Sabato, sul Wall Street Journal è uscito uno studio sull’impatto della chiusura delle scuole sull’apprendimento dei ragazzi. Ad esempio, su quelli tra 9 e 11 anni, tre mesi di didattica a distanza per la matematica significano un anno di studio buttato via. Mi chiedo se quando si è deciso di chiudere le scuole siano state fatte riflessioni di questo tipo, se si sia considerata solo la prospettiva dei virologi anziché occuparsi ad esempio anche delle conseguenze più ampie sulla povertà e sulla disoccupazione. Non discuto il lockdown, dico però che almeno la ripartenza avremmo dovuto costruirla attorno a valutazioni più articolate. Invece da noi non sappiamo neppure se la scuola a settembre riaprirà».
Parla di studenti. Nell’intervista pubblicata domenica sul Corriere Fiorentino, Andrea Ceccherini, presidente dell’Osservatorio GiovaniEditori, ha espresso fiducia verso i giovani, ma non verso la nostra classe dirigente politica. Condivide?
«Ho molta fiducia nei giovani. Il problema è che la nostra classe politica mira soprattutto ad essere rieletta e quando si vota la quantità di adulti e anziani è molto superiore ai giovani. Sia perché la sfiducia porta molti giovani a non votare, sia perché in un Paese che invecchia il fattore demografico pesa. Il risultato è che per i giovani le disuguaglianze aumentano sempre di più, e aumenteranno dopo questa emergenza quando andranno a cercare lavoro, mentre per un pensionato nulla cambia».
Le continue dispute sull’Europa non sono anche un modo per coprire la povertà dell’offerta politica?
«Non è un problema solo italiano, ma da noi è più accentuato che altrove. La nostra politica quando fallisce scarica sempre le colpe su altri, e l’Europa è il capro espiatorio ideale. In altri Paesi chi perde va a casa e fa un altro mestiere, da noi l’Europa viene usata come scusa per ripresentarsi in politica, dicendo che “è l’Europa che non mi ha permesso di fare quel che avrei voluto”».
Non ci sono solo i politici. Gli imprenditori si stanno dimostrando all’altezza della sfida?
«Gli imprenditori fanno parte della realtà italiana in tutto e per tutto. Ma va anche detto che viviamo in un contesto di regole burocratiche, con un sistema giudiziario e un sistema finanziario inefficienti, che porta i nostri imprenditori ad avere uno svantaggio competitivo rispetto ai colleghi stranieri. È un sistema paralizzante. Oltretutto, gran parte della maggioranza politica che ci governa attualmente ha un atteggiamento antiimprenditoriale, crede che l’imprenditore estragga reddito anziché crearlo».
Con i cinema chiusi, ad esempio, si potevano creare i drive-in: nessuno ha avuto il coraggio di provarci o è la burocrazia che lo impedisce?
«Mi chiedo quante autorizzazioni ci sarebbero volute e quanto tempo sarebbe servito per ottenerle».
E le banche, che lei conosce benissimo nei loro meccanismi?
«Le banche oggi sono molto più forti di dieci anni fa. In questo momento potrebbero essere la soluzione a molti problemi, dando liquidità alle imprese. Ma, di nuovo, i vincoli burocratici rischiano di far saltare il punto fondamentale, il fattore tempo. In un Paese in cui nessuno si fida di nessuno, si va avanti di carta bollata in carta bollata fino alla paralisi».
Parliamo di Toscana. Questa regione che sembra destinata a essere sempre una terra di mezzo tra un Nord che va veloce (virus a parte) e un Sud prigioniero di lentezze, ritardi, immobilismi. Il Covid spingerà la Toscana avanti o indietro? Il tessuto delle piccole e medie imprese reggerà l’urto?
«Non vedo fattori di competitività diversi per la Toscana rispetto al Nord Italia alla luce dell’emergenza coronavirus. Semmai è un problema di numeri: in termini di quota di valore aggiunto abbiamo tante imprese concentrate su turismo e i servizi, ma ancora non abbastanza che invece operano in settori ad altro valore aggiunto».
A proposito di turismo, Firenze è una città in crisi piena. Il modello tutto basato sul turismo è naufragato.
«Non solo Firenze, tutta la Toscana è vittima del suo successo. Il lockdown è stato penalizzante per chi puntava sul turismo di massa. La lezione è che dobbiamo ripensare il modello di sviluppo, diversificare i settori, investire su eccellenze, Università, ricerca, tecnologia. Non si può vivere di solo “mordi e fuggi”».
Andrea Ceccherini ha evocato la metafora della fiaba per dire che sarebbe necessaria una rappresentazione alta della città e dei suoi valori davanti a tutto il mondo, in grado di attrarre sostegno, presenze, investimenti, ma che non vede leader all’altezza di un’impresa così. È una riflessione che investe tutta la classe dirigente della città. A suo giudizio è all’altezza della sfida?
«Deve esserlo o diventarlo, ma per farlo forse bisogna cambiare metodo: evitare le kermesse e saper scegliere un team di qualità e concretezza, non su base di fedeltà politica ma di competenza. Ma per ripartire si deve essere capaci di guardare anche oltre Firenze».
Ovvero?
«Questa pandemia ci offre molte chiavi di lettura nuove, che possono portarci a ripensare la nostra vita. Ad esempio il telelavoro, per alcuni diventerà la normalità. E questo ci deve portare a puntare su un modello che va oltre la grande città, a persone che tornano a vivere nelle campagne. Non tutto può essere pensato solo per il turista, è giusto pensare alla nostra qualità della vita».
Come la banda larga…
«È fondamentale. Come lo sono altre necessità: ad esempio, in Toscana abbiamo un ottimo sistema sanitario che ha retto bene l’urto dell’epidemia. Questo è uno dei tanti motivi per cui si può scegliere di vivere anche fuori dai grandi centri».
Lei ha guidato Palazzo Strozzi, ora guida la Fondazione Pecci. Quale dovrebbe essere il ruolo della cultura nelle nostre città?
«Anche la cultura va ripensata, proprio perché non deve essere destinata solo al turista. Non può rimanere solo un’occasione di godimento passivo, deve coinvolgere le persone e diventare un impulso per pensare al futuro, per stimolare la creatività».
Però i musei sono quasi vuoti, mentre la domenica davanti ai centri commerciali ci sono centinaia di metri di fila.
«È vero, ma è un motivo in più per provare a cambiare, per rendere lo spettatore protagonista, per far sì che quando esce da un evento abbia idee e voglia di fare, mentre quando si esce da un centro commerciale si hanno zero idee e tanto mal di testa. Col Pecci, proviamo a offrire tremila idee e stimoli. Ora abbiamo una mostra di un artista cinese (Ren Hang, ndr) che incarna proprio la voglia di libertà, la voglia di reagire. Prato per me è stata una scoperta: è organizzata, si vive bene, c’è voglia di fare e amore per le cose belle».
Quando in Cina è esploso il caso Covid, molti si aspettavano il disastro di Prato, con la comunità cinese più cospicua d’Italia. Invece è successo tutt’altro. Lei se l’aspettava?
«Non è stato un caso. Quando ci sono integrazione, organizzazione e dialogo, le cose funzionano. La comunità cinese ha dato l’esempio e con le quarantene volontarie ha evitato il disastro. La storia della Toscana, con la sua capacità di accogliere e di trasformare in creatività, ha avuto ancora una volta successo».
❞ La nostra classe dirigente deve essere all’altezza o diventarlo evitando le kermesse, ma sapendo scegliere team di qualità e concretezza non su base di fedeltà politica
❞ Il turismo mordi e fuggi? Siamo rimasti vittime del nostro successo Il lockdown ha insegnato che prima del turista viene la qualità della nostra vita