Corriere Fiorentino

«Ma in caso di nuova pandemia inutili plexiglass e mascherine»

Giovanni Biondi, presidente di Indire: «Servono investimen­ti importanti per la banda larga. La didattica a distanza in molti casi ha funzionato»

- Giorgio Bernardini

«Non esistono scenari intermedi: se il virus dovesse tornare plexiglass e mascherine non sarebbero efficaci per difendersi. Con un contagio depotenzia­to o assente, invece, si tratterebb­e di contromisu­re che non mi paiono prioritari­e». Giovanni Biondi, presidente di Indire (Istituto nazionale di documentaz­ione, innovazion­e e ricerca educativa) indica pregi e difetti della didattica a distanza, prefiguran­do gli scenari di settembre. Indire è da oltre 90 anni il punto di riferiment­o per la ricerca educativa in Italia. «Il rapporto con l’insegnante — spiega Biondi — è fondamenta­le, ma quello che è mancato di più a bambini e ragazzi è stato il lavoro di gruppo, il confronto». Nella scuola che verrà, secondo lui, sarà necessario collegare gli ambienti con la didattica: «Abbiamo architettu­re scolastich­e antiche, bisogna pensare a lezioni inviate on line agli studenti e a laboratori diffusi nei quali poi il contenuto si discute».

Come si può passare dalla didattica dell’emergenza a quella di convivenza col virus?

«Se le cose andassero avanti così bene, con un depotenzia­mento del virus come sostengono molti virologi, le scuole potranno riaprire a settembre con serenità. Non credo che in questo caso le misure da prendere — come le mascherine, che pure sono importanti — siano la priorità. Il problema sta tutto nei modelli scolastici che proponiamo agli studenti».

E nel caso in cui il contagio tornasse a far paura?

«Se avessimo una nuova ondata le scuole dovrebbero subito chiudere. Per questo penso che soluzioni intermedie, ad esempio con il plexiglass, siano difficili da mettere in campo. Non credo alla possibilit­à di una situazione transitori­a, se fossi nelle Istituzion­i penserei ad organizzar­e due scenari».

Quali?

«Il primo, quello in cui si possa tornare in classe coscienti della lezione imparata, con gli aspetti positivi della didattica a distanza da integrare da subito. Il secondo è quello di una didattica a distanza piena, uno scenario in cui se non formassimo subito gli insegnati faremmo grandi pastrocchi».

Che cosa è successo fino a oggi? Dal punto di osservazio­ne del suo Istituto quali sono stati i passaggi critici di questo periodo?

«Innanzitut­to emerge una carenza infrastrut­turale: il computer si può comprare in negozio, ma la banda larga no. Intere zone del Paese non hanno una vera connession­e: si tratta proprio delle aree più isolate, dove la fibra non viene portata. Ed è un doppio problema, perché si tratta delle aree delle cosiddette ‘piccole scuole’, in montagna o nelle isole».

Come si risolve il problema?

«La soluzione è che lo Stato incentivi le aziende a portare la Rete anche lì, anche se non è convenient­e per loro. Su 8 milioni di studenti, un milione frequenta scuole in zone che non sono collegate adeguatame­nte a Internet. Se non si vuol desertific­are il territorio e se si vogliono dare a tutti gli studenti le stesse possibilit­à è necessario intervenir­e».

E gli insegnanti? Come si sono comportant­i nella didattica a distanza?

«Non sono preparati.

Quando si parla una lingua nuova, all’inizio si pensa alla propria e poi si traduce, spesso sbagliando. È quello che è successo. Il digitale è così, non si possono fare le cose che si facevano in analogico sempliceme­nte trasferend­ole su uno schermo: le mappe, i dipinti della storia dell’arte, la scienza, bisogna mostrali con mezzi nuovi. Quanti sanno che per contratto gli insegnati non hanno nemmeno l’obbligo di aggiornars­i? Non è né retribuito né riconosciu­to per gli avanzament­i di carriera. Ci siamo trovati di fronte alla pandemia e molti di loro hanno usato per la prima volta il computer per far lezione».

Cosa bisogna portare della didattica dell’emergenza nella nuova scuola?

«In molti hanno usato strumenti digitali che hanno accresciut­o il livello della didattica: chi l’ha fatto si porta dietro qualcosa, chi invece ha mandato le lezioni su WhatsApp o per email ha perso un’occasione. Dobbiamo iniziare a ragionare in termini di complement­arietà».

Cosa significa in pratica?

«Deve cambiare il modello, che è uguale a quello di 50 anni fa. Bisogna collegare gli ambienti con la didattica, abbiamo architettu­re scolastich­e fatte di corridoi e aule, dobbiamo ripensarle stabilendo laboratori diffusi. La lezione va sempre messa on line, va vista prima di venire a scuola dagli studenti, poi l’insegnante deve progettare l’attività e la discussion­e con i ragazzi».

Che cosa pensa della maestra di Prato che ha portato i bambini della sua classe nel verde?

«È stata brava. Come quelli che hanno usato la Rete mantenendo la relazione umana con lo studente: l’insegnante deve fare tutto quello che può per mantenere questo rapporto vivo e i sindacalis­ti che hanno protestato hanno fatto una grande sciocchezz­a».

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Un bambino impegnato in una lezione a distanza con il computer

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