Il museo vada oltre il museo
Dopo la proposta di Schmidt La restituzione delle opere ha un senso se accompagnata da una progettualità Duccio in Santa Maria Novella? Solo se inserito in un’operazione che valorizzi il complesso domenicano
Mette il dito in una piaga, che è ben più vasta, vale a dire la crescente disarticolazione, sancita dalla riforma Franceschini, fra grandi musei faro gestiti come aziende autoreferenziali e un patrimonio diffuso sterminato, sempre più abbandonato a sé stesso. Nei corsi e ricorsi della storia da più parti si sta finalmente prendendo coscienza che è giunta l’ora di porre fine a questa separatezza, di far dialogare i musei col territorio in cui si trovano e della cui storia secolare sono espressione.
Il museo è il luogo di eccellenza che aiuta ad avvicinare il pubblico all’arte, ma il museo deve continuare oltre il museo, deve invitare a scoprire i mille luoghi — chiese, chiostri, oratori, palazzi… — da cui vengono le opere del museo, che detengono tante altre sfaccettature di quella stessa civiltà figurativa, col valore aggiunto del sapore irripetibile del luogo per cui le opere sono state fatte. La storia dell’arte metodologicamente più avvertita da anni lavora alla ricomposizione dei contesti, su basi documentate, coi mezzi delle ricostruzioni digitali, mentre il consumo diffuso delle opere d’arte va nella direzione opposta di un apprezzamento rapido e inconsapevole, avulso dalla geografia e dalla storia, in astratto.
Forse ora c’è l’opportunità di invertire la rotta. Tutti all’improvviso hanno cambiato idea, non parlano più di ottimizzazione della bigliettazione, ma di slow tourism e di percorsi alternativi, ma se ai proclami non seguono dei ragionamenti e delle scelte politiche si rischia di fare tanto clamore per nulla, e poi tutto tornerà come prima. Ci vuole chiarezza. Il turismo di massa sarà sempre incanalato nelle rotaie di quelle poche mete giustamente totemiche e altissime, e semmai il problema sarà come disciplinarlo, per la salvaguardia stessa di quei luoghi e perché l’esperienza del visitatore non sia congestionata e alienante. Alimentare a latere un turismo di qualità e colto è però una necessità vitale, perché è l’unica speranza per conservare un patrimonio diffuso che ha costi di manutenzione altissimi e che nel suo insieme fa sì che città storiche come Firenze, col loro contado, siano uniche al mondo. Senza funzione e fruizione non ci sarà mai conservazione. Costruire dei percorsi alternativi, che vuol dire anche accessibilità facili e programmate, che vadano oltre l’occasionalità del volontariato e delle meritorie domeniche di primavera del Fai, non è allora un’istanza elitaria, è anzi, insieme ad altre strategie di ripopolamento dei centri storici — con artigiani, studenti, artisti — l’unica speranza per salvare il carattere stesso di città come Firenze o Venezia, ma anche di tanti centri minori, abbandonati al degrado o svenduti a una commercializzazione sfrenata e volgare, come San Gimignano o Montalcino.
Una terza via non esiste? Come docenti di storia dell’arte dell’Università di Firenze abbiamo organizzato tre webinar su questo tema di scottante attualità, disponibili sul canale Youtube del dipartimento SAGAS. Una quarantina di esperti, e fra essi anche i nostri studenti, hanno esposto proposte puntuali e riflessioni di ampio respiro. È necessario uscire dalla frammentazione esasperata e proporre innanzitutto sinergie di competenze e saperi. Anche noi abbiamo lanciato la provocazione di riportare alcune opere dai depositi dei musei o dalle sale sovraffollate dell’Accademia e degli Uffizi in luoghi ancora densi di bellezza e di storia da cui esse vengono, ma come scintille che possano far scattare corti circuiti vitali, in un quadro complessivo per cui i musei e le soprintendenze, le diocesi e gli enti locali cooperino per proporre percorsi integrati, che entrano ed escano dal museo, che aiutino a riqualificare tanti luoghi abbandonati del centro stesso e del contado.
Il limite della provocazione di Schmidt è quello di non inserirsi in una progettualità più ampia e integrata, che in prima istanza dovrebbero avviare gli enti locali e che onestamente non stanno avviando. Il vizio è credere che una singola operazione, di sicuro risalto mediatico, sia il toccasana. Schmidt, è stato fatto notare maliziosamente, gioca comunque per sé stesso, perché oltre che direttore degli Uffizi è presidente del consiglio di amministrazione del FEC, da cui dipende Santa Maria Novella. Ma quale museo uscirebbe dal suo particolarismo, se non indotto da una strategia generale? A Firenze ci sono polittici divisi fra l’Accademia e il Museo Bandini (Lorenzo di Bicci), fra i depositi degli Uffizi e San Martino a Mensola (Gerini), e infiniti altri, ma nessuno mai si sognerebbe di ricomporli, magari con depositi pluriennali, come fanno tanti musei americani.
Le restituzioni non sono proponibili laddove ci sia ormai una storia collezionistica e museale sedimentata, che esprime una seconda o terza vita dell’opera anch’essa portatrice di valore, ma ci sono infiniti casi di contesti architettonici bellissimi e negletti da cui sono state sottratte opere che nel loro ambiente avevano tutto un altro senso. Andrebbero selezionati pazientemente obiettivi simili e perseguiti perché facciano scuola, inducano sensibilità nuove a livello diffuso.
Vogliamo parlare di Santa Maria Novella? Dove penserebbe Schmidt di collocare la Maestà di Duccio? Appesa in mezzo alla navata centrale a lato del Crocefisso di Giotto, dove probabilmente stette, ma su una trave e un tramezzo che non ci sono più? O dove fu messa in origine, poco dopo il 1285, nella cappella di San Gregorio, alias dei Laudesi, al posto della Madonna del Rosario di Vasari ivi collocata all’inizio del Novecento? Come studioso potrei anche essere entusiasta dell’idea, perché ho dimostrato, con un rilievo apposito, nel volume del 2015 pubblicato dall’Ente Cassa e da CRF, che i resti di affreschi dello stesso Duccio la integravano al centimetro. Ma un’operazione simile si giustificherebbe solo nel quadro di un potenziamento del complesso museale di Santa Maria Novella, che è nelle mani del Comune di Firenze e che include il chiostro grande — forse il chiostro più bello di tutta Firenze — e gemme neglette come la cappella di Leone X affrescata da Pontormo. Non sembra però nell’agenda del Comune. Ci sono già state restituzioni meno pubblicizzate, ma esemplari: il Bargello ha restituito in chiesa la pila marmorea dell’acqua santa Bordoni, di primo Trecento. E altre decine di opere vengono dal complesso domenicano e sono depositi, come il magnifico paliotto tessile del 1336 ora all’Accademia. Senza dire delle tavole, dei corali miniati, dei parati stupendi ritirati in convento e che potrebbero essere esposti. La Maestà di Duccio riportata a Santa Maria Novella avrebbe senso solo se si inserisse in un progetto organico per valorizzare meglio l’intero complesso monumentale domenicano. Tanti altri progetti, forse meno eclatanti ma luminosi, potrebbero essere perseguiti. Perché ad esempio gli Uffizi non riportano alla Villa Carducci, tra Legnaia e Soffiano, il ciclo degli Uomini illustri di Andrea del Castagno, ora ridotti a quadri isolati e non visibili abitualmente, ricomponendo una sala che ancora presenta i resti delle incorniciature originali, restituendo così al territorio tra Firenze e Scandicci un monumento principe del Rinascimento di cui è stato privato? Sarebbe un bel segnale per incamminarci tutti assieme verso una Firenze sempre più plurale e polifonica. Se davvero Schmidt crede alla filosofia delle ricomposizioni dei contesti che ancora possono essere risarciti, sia conseguente e lo faccia. In caso contrario sarà chiaro che era solo una boutade, una delle tante.
* Professore ordinario di Storia dell’arte medioevale, coordinatore del Dottorato regionale in storia delle arti e dello spettacolo, Università di Firenze - Dipartimento SAGAS (storia archeologia geografia arte spettacolo)
❞ Perché allora non riportare a Soffiano gli Uomini illustri?