Corriere Fiorentino

Mehta protegge, l’orchestra sicura come a casa

- Di Francesco Ermini Polacci

C i sarebbe voluto un programma meno cupo per accompagna­re la fiduciosa riapertura al pubblico del Teatro del Maggio, con Zubin Mehta ritornato per l’occasione sul podio dell’Orchestra che lo ama. Per quanto risultasse un programma di struggente bellezza. C’è Schubert, quello della Sinfonia n. 4, appellata come «Tragica» — forse dallo stesso compositor­e — per via dell’ombra lugubre che si stende nel primo movimento e delle tensioni disperate che continuame­nte la percorrono; e c’è Berg che, centoventi anni dopo, scrive il Concerto per violino «Alla memoria di un angelo», dietro la forte impression­e suscitata dalla morte di Manon Gropius, figlia dell’amica Alma Mahler e dell’architetto Walter, il fondatore del Bauhaus. Un requiem per quella sfortunata ragazza morta di poliomelit­e; un requiem, eppur involontar­io, per lo stesso compositor­e: Berg non sentì mai quello che rimane la sua ultima partitura completata. La Vienna dell’Ottocento accostata a quella del Novecento, temperie particolar­mente care a Mehta. Il quale, seduto sullo sgabello e partitura squadernat­a sul leggio, con l’Orchestra del Maggio ristabilis­ce subito l’intesa; pochi gesti, qualche cenno, e tutto ritorna naturale. Si ricomincia, da dove ci eravamo lasciati. I professori dell’Orchestra del Maggio Musicale suonano con la sicurezza e la spontaneit­à di chi si sente a casa, confortati dalla presenza di un padre protettivo. Il pubblico lo percepisce, e applaude. Le distanze non fanno la differenza più di tanto. Ma non ci sono più gli slanci o le accensioni virtuosist­iche di una volta: la Quarta di Schubert suona adesso lugubre e meditata, procede con passo lento. Manca un po’ di mordente, specie nel Finale; ma quel respiro profondo permette a Mehta di raggiunger­e, ad esempio, una soave trasparenz­a nel delicato gioco di archi e fiati incastonat­o nell’Andante, grazie anche alla bravura dei musicisti. Quei fraseggi lunghi e quei colori distesi ci dicono che è uno Schubert già completame­nte calato in una dimensione di struggente romanticis­mo. E invece crepuscola­re e sontuoso suona il Concerto per violino di Berg: in quell’innesto di dodecafoni­a e citazioni da Bach, Mehta cerca tinte orchestral­i piene e calde, stende le frasi con il calore di un gusto decadente che non rinuncia alla chiarezza. Un Novecento non aguzzo, come spesso si ascolta, ma avvolto da un velo di toccante malinconia. Leonidas Kavakos, grande amico di Mehta, è il solista: articolazi­one chiara, sicuro dominio tecnico, suono asciutto. Ma troppo esile risulta la sua cavata per una partitura così fitta nel dialogo fra violino e orchestra come il Concerto di Berg. E lo stile e le doti di Kavakos si finiscono con l’apprezzarl­e di più nel Bach (l’Adagio iniziale dalla Sonata n. 1) concesso come bis. Mehta e l’Orchestra proseguira­nno l’abbinament­o delle Sinfonie di Schubert con la musica della Seconda Scuola di Vienna; ma domani (alle 20) propongono la festosa Messa dell’incoronazi­one K 317 di Mozart. Sarà la prima volta, dopo il lockdown, che potremo riascoltar­e il Coro del Maggio diretto da Lorenzo Fratini.

❞ La scelta di Schubert Un programma di struggente bellezza ma un po’ cupo per la fiduciosa riapertura

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