COM’È TRISTE QUESTO CALCIO
Passa Joe Barone e promette: «Riporteremo i tifosi sugli spalti» Il ricordo di Rialti e Righini, le azioni e le voci dalla panchina
Centoventuno giorni dopo, rieccolo. Il Franchi. Tanto è passato dall’ultima volta. Si giocava Fiorentina-Milan, e finì 1-1.
Ti sforzi di ricordare com’era, ma è dura. C’era una volta il traffico, i motorini, i clacson. E poi i 30.000, i cori, i sussulti, i fischi. Il boato, per un gol. Il silenzio, improvviso e gelido, se a segnare erano gli altri. Scene di un calcio che (per ora) non c’è più. E chissà quando tornerà.
Nel mezzo, quattro mesi nei quali questo vecchio, carissimo stadio, è stato comunque al centro di mille attenzioni. Mai, come in questo periodo, se n’è discusso. Certo, il Franchi, non se la passa benissimo. Tra voglia di abbatterlo, manifestazioni con tanto di ruspe, minacce di abbandono e nemmeno la soddisfazione di potersi mostrare in tutto il suo fascino. Perché il Franchi, quando gioca la Fiorentina, è bellissimo. Pieno di gente (oltre 30.000 presenze di media, prima dello stop), di viola, di passione. Le coreografie della Fiesole, i tifosi capaci di riempirlo anche alle 4 del mattino (1996), per accogliere la squadra di ritorno con la Coppa Italia vinta a Bergamo.
Oggi no. Oggi, tutto questo, non è possibile. «Ma stiamo lavorando forte in Lega per riaprire almeno in parte le porte entro la fine del campionato perché il calcio senza tifosi non è calcio», dice Joe Barone passando in tribuna stampa anche per ricordare Alessandro Rialti. Fa effetto cercarlo, e non vederlo. Quel seggiolino vuoto, che sarà suo per sempre, in attesa che l’intero settore venga dedicato alla sua memoria, come la sala stampa è stata intitolata a un’altra collega che manca. Manuela Righini, scomparsa esattamente 10 anni fa. Manuela e «Ciccio». Chissà che parole avrebbero usato per raccontare giocatori che scendono mascherati dal pullman (circa un’ora e mezzo prima del fischio d’inizio) accolti da un’inevitabile indifferenza.
Deserto, il Franchi. Dentro, e fuori. Nessun assembramento, nessun ritrovo. L’inno c’è, invece. E rimbomba. Poi il minuto di silenzio (assordante) per ricordare le vittime del Covid 19. In tribuna, oltre a Barone, suo figlio Joseph, Antognoni, Dainelli e Pradè, tutti a distanza di sicurezza l’un dall’altro. Quindi, la partita. E quei rumori che nel calcio (blindato e silenzioso) ai tempi del coronavirus, sono forse l’aspetto più affascinante. Perché non li puoi sentire, di solito, e allora diventa interessante ascoltare, oltre che guardare. «Linea!», urla Caceres (tra i più chiacchieroni) per richiamare il reparto. E poi Pezzella che, da padrone di casa, dopo qualche protesta di troppo da parte della panchina del Brescia, gli si rivolge a muso duro. «Basta urlare!». E Iachini? Richiama «Fede», «Gae» (Castrovilli) e, dopo qualche lancio lungo, si arrabbia. «Non lanciamo — strilla — giochiamo». Fino al rigore. «Ma quale rigore?!», chiede il mister al quarto uomo. Dopo il gol di Donnarumma, invece, un «andiamo» buono per rinfrancare i suoi. Alla rete del pareggio, nessuna esultanza. Anzi. La prima preoccupazione è sistemare la squadra. Esulta, eccome, dopo le due reti annullate ma, tutto sommato, accoglie con serenità le decisioni dell’arbitro. Ribery, un po’ meno. «È gol», dice dopo quella annullata a Vlahovic. Una parola di troppo al mister scappa dopo l’espulsione di Caceres e infatti, pure lui, viene cacciato. La sua partita prosegue in tribuna. Si sente. Come prima, più di prima. In tribuna, i dirigenti, si agitano, si alzano, protestano. Perché questo pari, non serve e, alla fine, cala il silenzio. Le luci, dopo un po’, si spengono.