Butini, il dc rivale di un santo
A quattro anni dalla scomparsa pubblicato un volume a cura del figlio con l’ultima intervista La sua fortuna con Fanfani in auge. La sua sfortuna fu essere percepito come l’avversario di La Pira
Tramontata con la seconda repubblica l’epoca del «non vogliamo morire democristiani», l’approccio alla storia del partito che fu l’asse portante del sistema politico italiano comincia a rivestire forme più serene. Lo conferma l’interesse per le memorie di vari esponenti della Dc, che aiutano a valutare il livello complessivo di una classe dirigente.
Ivo Butini, di cui il figlio Francesco ha pubblicato quattro anni dopo la sua scomparsa i ricordi (Una storia democratico cristiana. L’ultima intervista al senatore Ivo Butini, SEF), non militava fra le seconde file. C’è stato un periodo in cui come leader della corrente fanfaniana è stato uno fra i politici più influenti nella nostra regione. Segretario provinciale della Dc fiorentina nel 1963, segretario regionale nel 1973, consigliere regionale dal 1970 al 1979, ha avuto un ruolo non secondario prima nell’accantonamento dell’esperienza lapiriana, poi nel tentativo di impedire, in occasione delle prime elezioni per il Consiglio regionale, una maggioranza frontista. La prima operazione ebbe successo; la seconda fallì: il Psi, pur governando con la Dc a Roma, a Firenze entrò in giunta col partito comunista.
Il declino di Butini coincise col tramonto di Fanfani, sostituito nel 1975 alla segreteria della Dc dopo la sconfitta nelle amministrative del 1975. Da allora — ricorda — «mi dedicai di più all’attività istituzionale e meno a quella di partito». E infatti fu senatore per tre legislature e sottosegretario dal 1988 al 1992. Dopo la scomparsa della Dc si ritirò a vita privata, come «un cassintegrato della prima repubblica». La sfortuna di Butini è stata quella di essere stato percepito come l’avversario di
La Pira: non è facile, nel giudizio dei posteri, confrontarsi con un santo.
In realtà, il suo profilo è più complesso. Di famiglia piccolo-borghese, madre cattolica e padre socialriformista, antifascista anche per la sua ostilità all’«austriaco» Hitler, nel 1944 si iscrisse diciassettenne alla Dc e simpatizzò per Dossetti, di cui condivideva l’apprezzamento per il ruolo dello Stato, sospetto invece alla vecchia classe dirigente popolare che dallo Stato, quello fascista, era stata perseguitata. Ma se ne distaccò quando questi si schierò contro l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico.
La sua rapida ascesa ai vertici del partito conferma come la Dc fosse un partito interclassista. Una classe dirigente in prevalenza di «notabili» consentiva di crescere anche a un semplice maestro elementare. «Tutto sommato — commenta Butini — ti chiedevano di non dire bischerate». E anche per non dirle lui seguiva con diligenza le riunioni di sezione, in cui si parlava dell’esistenza di Dio, come quelle della Fuci, in cui invece si spiegava la Costituzione. Poi seguì le direttive del partito anche quando non ne era convinto, come per il referendum sul divorzio, perché, per citare il cardinal König, «le verità della fede non si sottopongono a un plebiscito».
Butini ha goduto a lungo della fama di anticomunista e «moderato». Dalle sue dichiarazioni emerge però come la sua ostilità a un’apertura al Pci nascesse dalla preoccupazione di evitare alla Dc un’emorragia di voti a destra. Quanto all’accusa di moderatismo, osserva con molta finezza che «i babbi di quelli che oggi predicano la moderazione stavano tra quelli che usavano la parola moderato come un’offesa».
In realtà, più che un moderato, Butini fu un «cartesiano». Così lo aveva definito La Pira, di cui traccia un ritratto colorito ma non rancoroso. È il ritratto di un mistico che non apprezza la critica (indimenticabile la sua reazione di fronte a un bancario che a un incontro di partito aveva osato contestarlo), convinto di poter imbarcare con sé persino comunisti e missini, ma a vogare («e se remano contro gli si dà un nocchino»); impaziente nei confronti di monsignor Florit («o va via il cardinale, o vado via io»), ma poi obbediente sino in fondo, perché «ubi episcopus, ibi ecclesia»; di un profeta che a volte sbaglia le profezie, come quando nel 1963 previde che un comizio di Fanfani in piazza della Signoria tutto rivolto contro i liberali avrebbe fatto guadagnare alla Dc diecimila voti. «E invece con quel discorso diecimila voti si sono perduti».
Indimenticabili sono anche i ritratti dei lapiriani. C’è Fioretta Mazzei, che nel Salone dei Duecento vuol seguire alla lettera le indicazioni del Professore, perché bisogna «avere fede anche nella Madonnina»; e Butini cartesianamente le obietta che la Madonna non vota in Consiglio comunale. E c’è Giovanni Pallanti, «ragazzo ribelle ma trattenuto», che si commuove quando Butini tiene ai giovani un discorso «sulle responsabilità profonde del potere», sollecitandoli «a una missione e ai necessari sacrifici». In fondo, la forza della Dc nei suoi uomini migliori era anche questa: identificarsi con lo Stato, ma senza dimenticare che il potere comporta, insieme ai privilegi, enormi responsabilità dinanzi agli uomini, e magari anche a Dio.
❞ Fama di anticomunista La sua ostilità a un’apertura al Pci nasceva dalla preoccupazione di evitare alla Dc un’emorragia di voti a destra