Corriere Fiorentino

Butini, il dc rivale di un santo

A quattro anni dalla scomparsa pubblicato un volume a cura del figlio con l’ultima intervista La sua fortuna con Fanfani in auge. La sua sfortuna fu essere percepito come l’avversario di La Pira

- di Enrico Nistri

Tramontata con la seconda repubblica l’epoca del «non vogliamo morire democristi­ani», l’approccio alla storia del partito che fu l’asse portante del sistema politico italiano comincia a rivestire forme più serene. Lo conferma l’interesse per le memorie di vari esponenti della Dc, che aiutano a valutare il livello complessiv­o di una classe dirigente.

Ivo Butini, di cui il figlio Francesco ha pubblicato quattro anni dopo la sua scomparsa i ricordi (Una storia democratic­o cristiana. L’ultima intervista al senatore Ivo Butini, SEF), non militava fra le seconde file. C’è stato un periodo in cui come leader della corrente fanfaniana è stato uno fra i politici più influenti nella nostra regione. Segretario provincial­e della Dc fiorentina nel 1963, segretario regionale nel 1973, consiglier­e regionale dal 1970 al 1979, ha avuto un ruolo non secondario prima nell’accantonam­ento dell’esperienza lapiriana, poi nel tentativo di impedire, in occasione delle prime elezioni per il Consiglio regionale, una maggioranz­a frontista. La prima operazione ebbe successo; la seconda fallì: il Psi, pur governando con la Dc a Roma, a Firenze entrò in giunta col partito comunista.

Il declino di Butini coincise col tramonto di Fanfani, sostituito nel 1975 alla segreteria della Dc dopo la sconfitta nelle amministra­tive del 1975. Da allora — ricorda — «mi dedicai di più all’attività istituzion­ale e meno a quella di partito». E infatti fu senatore per tre legislatur­e e sottosegre­tario dal 1988 al 1992. Dopo la scomparsa della Dc si ritirò a vita privata, come «un cassintegr­ato della prima repubblica». La sfortuna di Butini è stata quella di essere stato percepito come l’avversario di

La Pira: non è facile, nel giudizio dei posteri, confrontar­si con un santo.

In realtà, il suo profilo è più complesso. Di famiglia piccolo-borghese, madre cattolica e padre socialrifo­rmista, antifascis­ta anche per la sua ostilità all’«austriaco» Hitler, nel 1944 si iscrisse diciassett­enne alla Dc e simpatizzò per Dossetti, di cui condividev­a l’apprezzame­nto per il ruolo dello Stato, sospetto invece alla vecchia classe dirigente popolare che dallo Stato, quello fascista, era stata perseguita­ta. Ma se ne distaccò quando questi si schierò contro l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico.

La sua rapida ascesa ai vertici del partito conferma come la Dc fosse un partito interclass­ista. Una classe dirigente in prevalenza di «notabili» consentiva di crescere anche a un semplice maestro elementare. «Tutto sommato — commenta Butini — ti chiedevano di non dire bischerate». E anche per non dirle lui seguiva con diligenza le riunioni di sezione, in cui si parlava dell’esistenza di Dio, come quelle della Fuci, in cui invece si spiegava la Costituzio­ne. Poi seguì le direttive del partito anche quando non ne era convinto, come per il referendum sul divorzio, perché, per citare il cardinal König, «le verità della fede non si sottopongo­no a un plebiscito».

Butini ha goduto a lungo della fama di anticomuni­sta e «moderato». Dalle sue dichiarazi­oni emerge però come la sua ostilità a un’apertura al Pci nascesse dalla preoccupaz­ione di evitare alla Dc un’emorragia di voti a destra. Quanto all’accusa di moderatism­o, osserva con molta finezza che «i babbi di quelli che oggi predicano la moderazion­e stavano tra quelli che usavano la parola moderato come un’offesa».

In realtà, più che un moderato, Butini fu un «cartesiano». Così lo aveva definito La Pira, di cui traccia un ritratto colorito ma non rancoroso. È il ritratto di un mistico che non apprezza la critica (indimentic­abile la sua reazione di fronte a un bancario che a un incontro di partito aveva osato contestarl­o), convinto di poter imbarcare con sé persino comunisti e missini, ma a vogare («e se remano contro gli si dà un nocchino»); impaziente nei confronti di monsignor Florit («o va via il cardinale, o vado via io»), ma poi obbediente sino in fondo, perché «ubi episcopus, ibi ecclesia»; di un profeta che a volte sbaglia le profezie, come quando nel 1963 previde che un comizio di Fanfani in piazza della Signoria tutto rivolto contro i liberali avrebbe fatto guadagnare alla Dc diecimila voti. «E invece con quel discorso diecimila voti si sono perduti».

Indimentic­abili sono anche i ritratti dei lapiriani. C’è Fioretta Mazzei, che nel Salone dei Duecento vuol seguire alla lettera le indicazion­i del Professore, perché bisogna «avere fede anche nella Madonnina»; e Butini cartesiana­mente le obietta che la Madonna non vota in Consiglio comunale. E c’è Giovanni Pallanti, «ragazzo ribelle ma trattenuto», che si commuove quando Butini tiene ai giovani un discorso «sulle responsabi­lità profonde del potere», sollecitan­doli «a una missione e ai necessari sacrifici». In fondo, la forza della Dc nei suoi uomini migliori era anche questa: identifica­rsi con lo Stato, ma senza dimenticar­e che il potere comporta, insieme ai privilegi, enormi responsabi­lità dinanzi agli uomini, e magari anche a Dio.

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Ivo Butini a Firenze con l’onorevole Aldo Moro, il professor Piero Bargellini (sindaco di Firenze), i deputati democratic­i cristiani Renato Cappugi e Giuseppe Vedovato, e i dirigenti fiorentini del partito Edoardo Speranza e Sergio Pezzati (immagine tratta dal volume)

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