Tra i segreti del mio Arcieri
L’intervista Leonardo Gori domani apre il ciclo di incontri di «Aspettando la Città dei Lettori» Parlerà del nuovo libro, «Il ragazzo inglese», ambientato in una Firenze sull’orlo della guerra
Il ragazzo inglese è l’ultimo tassello narrativo che lo scrittore fiorentino Leonardo Gori dedica alla figura di Bruno Arcieri. Il libro, edito da Tea, esce domani e viene presentato alle 18,30 nell’area pedonale di via de’ Cerretani, a due passi dal Duomo di Firenze, alla libreria Il Libraccio, nel primo appuntamento di «Aspettando La Città dei Lettori», ciclo di incontri di avvicinamento alla terza edizione del festival curato dall’Associazione Culturale Wimbledon con la direzione di Gabriele Ametrano e il contributo di Fondazione Cr Firenze in programma a Villa Bardini dal 27 al 30 agosto.
L’ultima fatica di Gori porta il lettore nell’aprile del 1940: mentre l’Italia di Mussolini si trova ancora in bilico tra la «non belligeranza» e l’ingresso in guerra al fianco della Germania, il capitano Arcieri è a Firenze, dalla sua amata Elena, sempre più colpita nel lavoro e nella vita dalle infami leggi razziali.
Il libro aggiunge un importante tassello alla storia del personaggio...
«All’inizio, tanti anni fa, non avevo intenzione di inventare un personaggio seriale, come si dice, che si ripresentasse romanzo dopo romanzo. Volevo solo raccontare delle storie che appartenevano a un particolare periodo (gli anni Trenta e Quaranta del Novecento), senza altra preoccupazione che la totale sincerità. In quelle mie prime storie, appariva il personaggio di Bruno Arcieri, capitano dei carabinieri cooptato un po’ controvoglia nei Servizi segreti, con una funzione utile alle necessità del racconto. In Nero di maggio, il romanzo d’esordio, Arcieri era in pratica la “spalla” del vero protagonista della vicenda, un gerarca senza nome ma ritagliato sulla figura di Alessandro Pavolini. Poi è successo che dopo
❞ In questa storia il protagonista confessa a me e ai suoi lettori, che è un uomo con molte debolezze, come tutti noi, anche con qualche colpa inconfessabile
tre romanzi, quest’uomo allo stesso tempo appartenente alla sua epoca, ma anche in opposizione ad essa, ha cominciato a raccontarmi di sé, a spiegarmi perché era in quel modo, rigido e forse perfino un po’ antipatico».
Quindi?
«Gli scrittori importanti, quelli che amavo, dicevano che non erano loro a raccontare le storie, ma i personaggi. Non ci credevo. Invece ho dovuto fare i conti anch’io con questo strano fenomeno e ammettere che è vero. Bruno Arcieri mi detta perfino lo svolgimento delle sue avventure e soprattutto mi impedisce di fare scelte che contrastano col suo carattere. Con Il ragazzo inglese questo flusso di informazioni, che vanno dal personaggio al suo autore, hanno raggiunto un punto chiave. In questo romanzo, Bruno Arcieri mostra un aspetto di sé che francamente non avrei mai immaginato: ha confessato, a me e ai suoi lettori, che è un uomo con molte debolezze, come tutti noi, anche con qualche colpa inconfessabile. Ho dovuto vincere delle resistenze, per mostrare questi aspetti. Se ci sono riuscito, allora forse è con Il ragazzo inglese che Arcieri è diventato un personaggio autentico».
Venti anni di Bruno Arcieri. Come convive con questa figura?
«Vent’anni di storie hanno fatto sì che da personaggio ricorrente Arcieri diventasse, almeno per quanto mi riguarda, una persona a tutti gli effetti, e anche parecchio ingombrante. Nella fase più acuta della scrittura di un romanzo, durante il
“picco”, la mia realtà quotidiana è la storia che sto raccontando, mentre quella che dovrebbe essere davvero reale (famiglia, amici, l’altro lavoro) viene relegata in una dimensione di ombre. È una condizione di felice schizofrenia. Una cosa che voglio sottolineare è che Bruno Arcieri non è affatto Leonardo Gori».
Quanto la cultura del fumetto l’ha influenzato nel sequel di Arcieri?
«Quando scrivo, non solo di Arcieri, “vedo” la storia come un fumetto. Non è la stessa cosa che pensare cinematograficamente o in modo televisivo, come mi pare di vedere in certi romanzi contemporanei. Il fumetto vive di ellissi narrative, di salti che vanno riempiti con l’immaginazione. Si potrebbe estremizzare, dicendo che il cinema è passivo, mentre il fumetto è attivo, richiede l’apporto del lettore. E poi il fumetto è soprattutto serialità. La cosa fondamentale è che scrivo per immagini, cercando di mostrare e non di raccontare, perché voglio che il lettore veda le città, le strade, i palazzi, attraverso gli occhi di Bruno Arcieri».
Si può parlare di «scuola gialla fiorentina»?
«Ormai “giallo” è un’etichetta che ha poco senso. Ha avuto un glorioso passato, poi ha iniziato a differenziarsi in vari sottogeneri. Oggi possiamo parlare di superamento del genere. I miei romanzi si possono definire storie di spionaggio, ma mischiano volutamente trame razionali con atmosfere simenoniane, e addirittura con innesti di romanzo rosa, come nel Ragazzo inglese. Se esiste ancora, il “giallo” attuale è una forma di contaminazione spinta».
A cosa sta lavorando?
«A una nuova storia con Bruno Arcieri. È una storia del 1943, anno terribile… Aver iniziato a lavorarci nei primi mesi di questo 2020, per altri versi altrettanto nefasto, ha voluto dire trovare delle assonanze fra epoche tanto lontane tra loro: ma con un’analoga voglia di farcela».
Quanto ha lavorato su questo testo?
«Un anno. Svolgo il lungo lavoro di documentazione soprattutto sulle riviste dell’epoca, sui romanzi popolari, sulle fotografie, quelle pubbliche e le istantanee familiari; anche sui romanzi di Liala o di Pitigrilli, e nelle canzonette, perché è nel cosiddetto “basso” che si trova qualcosa di autentico del sentire comune di una determinata epoca… Poi c’è la scrittura che dura qualche mese. E infine il lavoro più lungo e più bello, ovvero le innumerevoli riscritture, il “rimpolpo”, come lo chiamiamo io e Marco Vichi».
❞ I miei romanzi si possono definire storie di spionaggio, ma mischiano volutamente trame razionali con atmosfere simenoniane, e con innesti di romanzo rosa