IL PASSO INDIETRO, LA STRADA SPIANATA
Come si è arrivati a questo punto? Da ieri la Centrale del latte della Toscana non ha più nemmeno una partita Iva, il Cda non esiste più e la rappresentanza del territorio in seno all’azienda che se l’è mangiata — Centrale del latte d’Italia — è ridotta al lumicino. Qualche passo indietro nel tempo consente di provare a tirare un filo di questa lunga vicenda dall’epilogo amaro.
L’obbligo per gli enti pubblici di cedere ai privati le partecipazioni «non strategiche» comparve per la prima volta nella Finanziaria del 2007, quando al Governo c’era Romano Prodi. Di proroga in proroga si è arrivati alla legge di Stabilità del 2014, quando a capo dell’esecutivo c’era Matteo Renzi e sottosegretario alla Pubblica Amministrazione era Marianna Madia: l’articolo 1, comma 569 di quella legge stabiliva che se la procedura di «alienazione» (cioè la vendita) della partecipazione non fosse stata realizzata, i soci avrebbero potuto chiedere la liquidazione in denaro del valore della loro partecipazione. Una sanzione pesantissima che avrebbe portato al fallimento numerose partecipate pubbliche. Fu allora che i vertici della Mukki — nominati dallo stesso Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze — chiesero udienza a Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, per segnalare che quella norma avrebbe messo nei guai molte partecipate anche in salute, o sulla via del risanamento. Richiesta declinata: troppo alto il rischio di essere accusati di favorire i vecchi amici della Città del fiore. Nel frattempo i conti della Mukki erano migliorati, passando dai quasi 70 milioni di debiti del 2010 a poco meno di 40 nel 2016: non sufficienti comunque per considerare l’azienda fuori dalla scure normativa che — senza valutare nulla oltre ai numeri del conto economico — imponeva di dismettere le partecipazioni in aziende con risultati in rosso da 5 anni. Allora si inizio a cercare un partner, per buttare nelle braccia di qualcuno più grosso l’azienda di Giorgio La Pira. Si fecero avanti in diversi. Nel febbraio 2015, quando vennero aperte le buste con le offerte, le sorprese non mancarono: c’era la Centrale del latte di Torino, mancava la tanto chiacchierata Granarolo; c’erano le principali cooperative di conferimento in cordata (Cooperlatte, Granducato e Atpz); un fondo cinese di Hong Kong; i dipendenti della Mukki che guardavano alla strada dell’azionariato diffuso; Alival Nuovi Castelli. La scelta cadde su Torino: Mukki andava in pancia ad una società quotata in Borsa e questo era giudicato sufficiente. Sembrava che così la partecipazione di Palazzo Vecchio e Regione nella Centrale del latte della Toscana fosse definitivamente al sicuro. Ma la luna di miele fra toscani e torinesi è durata poco. E, come sempre, i litigi esplodono quando finiscono i soldi: gestione poco accorta e un contesto non favorevole hanno creato un buco che doveva essere colmato con un aumento di capitale da 30 milioni. Che però i soci toscani non avevano intenzione di sottoscrivere. Così si è spianata la strada alla Newlat di Angelo Mastrolia. E però, nel 2017, quando la Centrale del latte di Brescia di trovo nella stessa situazione della Mukki, Maria Elena Boschi, sottosegretario del Governo Gentiloni, promise che si sarebbe personalmente occupata di emendare la legge del precedente esecutivo introducendo una deroga all’obbligo di cessione. Mantenne la promessa e i bresciani si sono tenuti loro latte.