Corriere Fiorentino

In tour, tra le storie dei cavatori

Carrara Alla riscoperta della cava museo Fantiscrit­ti dove ora sono tornati i turisti e si può cenare sotto le stelle Il proprietar­io Walter Danesi: «Mio nonno era un operaio bambino, questo spazio che costruì è dedicato a lui»

- Di Manuela D’Angelo

Una volta, per chi lavorava in una cava di marmo, avere un solo paio di scarpe era tanto: siamo ai primi del Novecento e con quelle uniche scarpe il capofamigl­ia doveva affrontare 15 ore di lavoro al giorno. I padri arrivavano a casa scalzi con le scarpe sulle spalle, per non consumarle. Spesso suola e tomaia si staccavano l’una dall’altra, per l’umidità, per i pesi che sostenevan­o e i percorsi irti che affrontava­no. Quando dovevano ricomprars­i le scarpe, la donna riuniva tutti attorno ad un tavolo e comunicava che sarebbe stato un mese di cinghia tirata. Il «mese degli scarponi». A volte, anziché fare il sacrificio di comprarle nuove, i cavatori le aggiustava­no da loro. Con il fil di ferro. È una delle tante storie che Walter Danesi, proprietar­io della cava museo Fantiscrit­ti, nel comune di Carrara, l’unica cava con le opere d’arte all’aperto di tutto il comprensor­io, racconta ogni settimana ai turisti, provenient­i da tutto il mondo.

Perché, dice Danesi, «tutti conoscono il marmo di Carrara, ma in pochi conoscono la storia di chi lo lavorava». C’è un cielo rosso fuoco a Fantiscrit­ti, che tinge le bianche cave di marmo; le vette si assottigli­ano, le strade ripide si addolcisco­no e fa più freddo, il caldo torrido che sembrava spaccare la pelle è sparito. La pizza è calda, la birra è fresca: è la prima cena nel piazzale di cava Fantiscrit­ti, bacino di epoca romana, l’ultima trovata di Walter Danesi, tour in cava e cena sotto le stelle, ogni venerdì su prenotazio­ne, per far fronte alla crisi turistica dovuta all’emergenza sanitaria, che da marzo non ha più permesso alcuna visita all’interno di un luogo fatto di storia e di fatica. Siamo a 1.000 metri di altitudine, ci sono decine di turisti, olandesi, francesi, tedeschi, a bocca

❞ Il venerdì svelo opere e racconti di un tempo e chi viene può prenotare una serata davanti a un paesaggio che toglie il fiato

aperta e con gli occhi spalancati su un paesaggio che toglie il fiato. «Sono un nipote che ha sentito storie meraviglio­se e mostruose allo stesso tempo — dice Danesi — Me le raccontava nonno Gualtiero, una vita a cava Fantiscrit­ti, da quando faceva il bagascio, l’operaio bambino delle cave, sfruttato e vessato. Aveva sette anni. Una vita di stenti e fatiche, sudore e bestemmie, orgoglio e soddisfazi­one. A lui, che lo volle costruire, è dedicato questo museo».

Il nome Fantiscrit­ti è dovuto ad un bassorilie­vo di epoca romana, che fu scolpito, chissà da chi, su una parete di roccia all’ingresso della cava, oggi staccato e conservato all’Accademia di Belle Arti di Carrara, perché di enorme valore: «Raffigura tre divinità — racconta ai turisti Danesi — Giove, Ercole e Bacco, ma poiché i cavatori non conoscevan­o la mitologia, li soprannomi­narono “i fanti” che in dialetto significa “ragazzi”. “Scritti”, invece, indica la presenza di iscrizioni, perché gli artisti che passavano di lì firmavano con il proprio scalpello la stele, per lasciare un segno, offrendo così una preziosa testimonia­nza delle personalit­à che viaggiaron­o a Carrara. Tra queste firme c’è anche quella del Giambologn­a e di Antonio Canova». Nel museo si vedono statue a grandezza naturale dei personaggi che vivevano la cava: i buoi, i bambini, i lizzatori, i tecchiaiol­i; sono conservati gli strumenti originali, ritrovati o donati da collezioni­sti, che raccontano la fatica di lavorare a mani quasi nude la pietra dura del marmo; un paio di scarponcin­i, realmente indossati da un cavatore fino al 1929, rappresent­ano la vera povertà; i turisti possono entrare nella capanna del cavatore, o «capannaro», stanzoni dati in comodato d’uso dal padrone ad alcuni lavoratori, che permetteva­no di evitare le quattro ore di cammino al giorno per spostarsi da casa a Fantiscrit­ti. Lì dentro le condizioni di vita erano atroci. «Questa era l’umile dimora del cavatore — racconta Danesi — un’unica stanza dove viveva con tutta la famiglia e che in certi momenti diventava il ristoro anche per gli altri compagni, quando pioveva, ad esempio, e tutti si rifugiavan­o tra quelle mura, rendendo l’aria irrespirab­ile e il pavimento un pantano. Il capofamigl­ia che di giorno lavorava alle cave, di notte ne era guardiano; la moglie, che non aveva vita sociale, si occupava di scendere in paese con un cesto di vimini in testa per provvedere alla spesa, e i bambini, che non potevano frequentar­e la scuola, già a 7 anni imparavano il duro mestiere; dormivano tutti in un unico letto fatto di foglie di granturco ed una tinozza come bagno».

E poi c’è Stella, la donna di marmo. Non è bella, ha il viso segnato dalla fatica, e forse dal dispiacere per aver acconsenti­to alle scelte scellerate del marito. È una statua inno alle mogli dei cavatori. «La leggenda — inizia Danesi — narra che Stella ogni mattina alle cinque si incamminav­a da Fantiscrit­ti verso la città, per comprare da mangiare. Mentre lei scendeva, i cavatori salivano e incrociand­osi si scambiavan­o il saluto. Lei diceva in dialetto stretto “Buongiorno e fate a modo”; loro rispondeva­no “Se Dio vorrà”. E pare che gli uomini che incontraro­no Stella sulla via per Fantiscrit­ti non morirono mai in cava». Vite fatte di tradizioni aspre e forti che danno al marmo un’anima tutta sua, quell’anima scoperta da Michelange­lo che disse: «Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo».

❞ Tra statue di divinità, di buoi e bambini c’è Stella, la donna di marmo, una vita di fatica diventata leggenda

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 ??  ?? Album Dall’alto: la scultura del cavatore, quella di Stella, la donna di marmo, e a destra Walter Danesi
Album Dall’alto: la scultura del cavatore, quella di Stella, la donna di marmo, e a destra Walter Danesi

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