Forteto, in tv la voce delle vittime
Fiesoli, la setta, le violenze. Il regista della serie: solo loro potevano raccontare il sistema
«Un ragazzo come me a quell’età rimane traumatizzato. Quelle violenze me le sogno ancora la notte». Alessandro Bastianelli si ferma, si copre il volto, piange. È uno degli 86 minori che nel corso di trent’anni sono stati affidati alle cure del Forteto. Non aveva quasi mai parlato finora, non aveva neppure voluto testimoniare al processo, ma ora ha deciso di farlo per un film documentario andato in onda in due puntate su Crime+Investigation (Sky) tra martedì e mercoledì sera. Si chiama «Il Forteto», è girato dal livornese Simone Manetti.
«Un ragazzo come me a quell’età rimane traumatizzato. Quelle violenze me le sogno ancora la notte». Alessandro Bastianelli si ferma, si copre il volto, piange. È uno degli 86 minori che nel corso di trent’anni sono stati affidati alle cure del Forteto. Non aveva quasi mai parlato finora, non aveva neppure voluto testimoniare al processo, ma ora ha deciso di farlo per un film documentario andato in onda in due puntate su Crime+Investigation (Sky) tra martedì e mercoledì sera. Si chiama «Il Forteto», è girato dal livornese Simone Manetti: un’ora e mezzo in cui alcune delle vittime, Alessandro, Sergio, Gino, Marika, Giuseppe, Grazia, Sara, Alessio, Max, sono stati intervistati in un capannone industriale alle porte di Roma, in una grande stanza spoglia piena di sedie. E lì hanno dato fondo ai propri ricordi, per ripercorrere le tappe che hanno portato alla nascita della comunità agricola, all’imposizione delle regole del «profeta» Rodolfo Fiesoli, fino alla narrazione precisa delle violenze, psicologiche e fisiche, subite, e a quel maxi-processo che ha riassunto in due condanne al carcere tre decenni di abusi.
C’è Sergio Pietracito che rivela di quando lavorava sul bulldozer al Forteto e cercava terreni sempre più scoscesi, sperando di ribaltarsi e morire. C’è Marika Corso che spiega come il «profeta» la chiudesse dentro una stanza perché facesse sesso con la madre affidataria. C’è Giuseppe Aversa, il primo a denunciare il sistema, che per la prima volta racconta apertamente che, strappato dai servizi sociali dall’orrore degli abusi di un amico di famiglia, sia finito in un incubo ancora peggiore. La storia Forteto, con molte fotografie d’epoca inedite, per la prima volta ha una dignità cinematografica. Nessun narratore esterno: le vittime bastano a raccontare una vicenda che è intervallata solo da brevi spezzoni dei dibattiti in Parlamento, di servizi giornalistici sul processo, di dichiarazioni di Rodolfo Fiesoli. Il «profeta», nelle immagini tratte dall’intervista girata da Matteo Calì prima dell’ultimo arresto, si racconta «vittima» di chi lo accusa. Ma l’incapacità di pentimento, di fare un passo indietro, lo inchioda ancora di più nella fissità delle sue colpe, sancite in via definitiva dalla giustizia.
«Ho scelto di far parlare solo i testimoni, senza aggiungere una voce fuori campo — spiega il regista Simone Manetti — perché credo che sarebbe stato fuori luogo commentare il vissuto delle vittime». Ma il documentario non è solo l’esposizione delle loro esperienze, perché attraverso una scansione per capitoli, temporali e tematici, la vicenda del Forteto viene raccontata con completezza: si spiega il concetto di famiglia funzionale, che portava i bambini ad essere affidati a genitori diversi da quelli stabiliti dal Tribunale dei Minori e comunque mai a coppie reali, in modo che il profeta potesse continuare a separare gli affetti per mantenere il proprio potere; si raccontano le pressioni per spezzare i legami con le famiglie d’origine, così da impedire ai membri di poter fuggire e trovare un rifugio fuori dalla setta; si illustra, attraverso le parole di Gino Calamai, come tutti i soci fondatori fossero parte del «meccanismo» e che contribuivano a replicare il sistema Fiesoli, fino a che alcuni di loro non si sono ribellati. Diventando vittime a loro volta, ma trovando il riscatto.
«Racconti dolorosi, sì — spiega il regista Manetti — Però il nostro obiettivo non era mandare in onda qualcosa di morboso, ma raccontare il Forteto».