«Quando l’altare si trasformò in ambulatorio»
Don Lorenzo e gli altri protagonisti raccontano
La mattina dopo il disastro, il 14 gennaio 2012, la Concordia ricordava un’astronave aliena abbattuta, un fermo immagine di Independence day. Aveva cessato la sua mirabolante vita di città galleggiante del divertimento per trasformarsi in un mostro spiaggiato, in un’enorme bara bianca. Nella notte precedente la darsena del minuscolo porto isolano fu invasa da un’umanità sofferente, da migliaia di naufraghi terrorizzati, scalzi, bagnati e infreddoliti. Erano stati al ristorante, indossavano abiti da sera e scarpe di vernice. Così agghindati si misero i giubbotti salvagente e salirono sulle lance. E così li videro arrivare, a migliaia, i gigliesi
«Fu un’apocalisse», dice Sergio Ortelli, oggi come allora sindaco del Giglio. Prima del tentativo di inchino, gli isolani si godevano una calma e fredda serata invernale. Poi, con crescente stupore, videro la regina dei mari rallentare e ruotare su se stessa. La osservarono impotenti fino a quando il vento la sospinse sulla scogliera della Gabbianara, dove si fermò, si inclinò e si rovesciò di 90 gradi. Fu allora che tanti persero la vita, «in quei corridoi divenuti pozzi privi di luce», racconta Mario Pellegrini, all’epoca vicesindaco, che d’accordo con Ortelli s’imbarcò su una delle lance che facevano la spola tra il porto e la nave. Sul lato destro della prua trovò una biscaglina, ci si arrampicò e salì sul ponte delle scialuppe di salvataggio, dove aiutò l’equipaggio a imbarcare i passeggeri. Pellegrini resistette persino alla brusca inclinazione e fino al mattino, assieme all’ufficiale Canessa, organizzò l’abbandono della nave sul lato opposto, quello di sinistra. Il filmato a raggi infrarossi da un elicottero della Guardia Costiera fece il giro del mondo, al pari della famosa telefonata tra de Falco e Schettino: i naufraghi sembrano formichine che avanzano una dopo l’altra, un centimetro alla volta, tese nello sforzo di non scivolare sullo scafo viscido come se fosse cosparso di gelatina.
«Sì, ho commesso un’imprudenza», argomentò Francesco Schettino durante l’interrogatorio davanti al giudice delle indagini preliminari. Una tragica imprudenza mentre comandava una nave con 4.229 persone a bordo. Per recuperare i corpi delle 32 vittime servirono settimane, anzi mesi: gli ultimi, quelli di Russel Rebello e di Maria Grazia Trecarichi, furono ripescati solo dopo il raddrizzamento.
Se anche 4.197 persone furono salvate, i soccorsi non funzionarono a dovere. «A bordo furono commessi degli errori», ricorda Gregorio de Falco, che coordinava le operazioni dalla sala operativa della Capitaneria di Porto di Livorno. «Dalla plancia sminuivano i fatti. Già pochi minuti dopo l’impatto avevano verificato di aver subito l’apertura di oltre tre compartimenti, che erano totalmente allagati. Fin da allora la nave era da considerarsi persa e quindi da abbandonare. Poi sbracciarono solo le lance di dritta e dettero fondo all’ancora dallo stesso lato, accentuando l’inclinazione della nave. Ma soprattutto ci fu un enorme ritardo tra l’urto (21.45) e l’ordine di abbandono (22.34)».
Il parroco, don Lorenzo Quagliotti, aprì le porte della chiesa dove i naufraghi si ammassarono: «Ricordo i loro sguardi persi. Non sapevano dov’erano finiti, parlavano tutte le lingue del mondo, avevano freddo e fame. Per riscaldarsi gli detti tutto quel che avevo, persino i paramenti sacri. L’altare si trasformò in un ambulatorio con il medico che faceva le visite». Fu questa l’apocalisse evocata da Ortelli: un’umanità terrorizzata e smarrita, infreddolita e affamata, che faticava a rendersi conto di una realtà inimmaginabile fino a quella sera.
Quando la nave urtò lo scoglio, si scosse al punto che piatti, bicchieri e passeggeri caddero per terra. Il pianista Alex Brandini proprio allora si era messo a suonare La sera dei miracoli di Lucio Dalla. Fu il computer a proporgli quel brano, mentre lui cercava qualcosa degli Oasis. Vide le luci che si spegnevano a intermittenza, corse verso il meeting-point che gli era stato assegnato per le emergenze e si dette da fare per imbarcare i passeggeri. Salvò un bambino, nel caos era rimasto da solo nel teatro che di lì a poco sarebbe stato inondato dall’acqua mescolata alla nafta: «Ritrovò i genitori — ricorda — Fu un miracolo».
Seguirono ricerche frenetiche, meste cerimonie con fiori in mare, la trasformazione della Concordia in qualcosa di inimmaginabile nella geometria dei solidi. Informe, sfigurata e tenuta a galla da cassoni alti come palazzi fu trainata fino a Genova per la demolizione. Anche la liberazione dell’Isola da quella cosa informe fu portentosa. Ma il miracolo più grande, anche se per le imperscrutabili ragioni del destino non si compì per tutti, avvenne proprio la sera del naufragio: se la nave si fosse fermata 50 metri prima, si sarebbe inabissata con 4.229 persone a bordo, divenendo un’immensa e inviolabile tomba in fondo al mare.
Un attimo prima dell’impatto il pianista della crociera suonava «La sera dei miracoli»