GUERRE, MIGRAZIONI CLIMA CHE CAMBIA: TRE EMERGENZE IN UNA
Molto chiaro il monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Firenze. Disponiamo della conoscenza della terra «ancora in maniera insufficiente e ridotta, anche perché viene dissipata abitualmente gran parte del tempo, delle energie e delle risorse nel competere, nel contrastarsi, quando non nel combattersi e nel cercare di distruggersi, quando vi sono di fronte all’umanità sfide e traguardi necessariamente comuni». Tra queste sfide comuni è centrale quella provocata dai mutamenti climatici e dalle guerre, con il conseguente impatto sulle migrazioni che si indirizzano verso l’Italia e l’Europa.
Su questo tema si è soffermato il Forum Mediterraneo «Ambiente e immigrazione», ospitato in Palazzo Vecchio, organizzato dal Centro Servizi Volontariato Toscana (Cesvot) e dal Centro socio-culturale Dea (Didattica, Espressione, Ambiente) a cui hanno partecipato geografi, architetti, economisti.
Nei rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo di scienziati dell’Onu che monitorano la crisi climatica, il Mediterraneo è considerato un hotspot che può produrre un «punto di svolta» avviando processi come l’innalzamento delle temperature medie annue dell’atmosfera, il riscaldamento e l’aumento del livello del mare dai quali non si può più tornare indietro.
I venti Stati con circa 520 milioni di abitanti che si affacciano sul Mediterraneo, che lo storico delle civiltà Fernand Braudel chiamava «il mare tra montagne», sono direttamente coinvolti in questa crisi e nei suoi effetti a medio termine che porteranno all’emigrazione di circa 216 milioni di persone da qui al 2050, il 70% delle quali proverranno proprio del Nord Africa. Il Mediterraneo, culla della nostra civiltà, oggi diviene il luogo deputato delle più pericolose emergenze. Quella demografica, con lo squilibrio tra i Paesi europei, e soprattutto l’Italia, in forte declino demografico e i Paesi africani e asiatici, che vedono un forte incremento delle nascite. Quella energetica, con i difficili rapporti tra i Paesi produttori di carburante fossile e quelli che ne dipendono per i consumi energetici. Quella economica, con la crescente divaricazione tra Paesi più ricchi a Nord e più poveri a Sud, e nei Paesi ricchi con l’incremento della forbice tra gli abitanti più poveri e i pochi più ricchi.
Quella alimentare e idrica: la siccità è ormai un grave problema anche per le nostre regioni meridionali. Per non parlare dei conflitti a sfondo religioso che contrappongono le tre religioni abramitiche (cristianesimo, ebraismo e islam), che per secoli hanno convissuto nel Mediterraneo. Tutto converge a rendere il Mediterraneo il luogo deputato delle fragilità ambientali, finanziarie, politiche e militari, che fanno pensare a quella che il sociologo Larry Diamond ha chiamato una «recessione democratica».
Davanti agli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico «la migrazione non è il problema, è la soluzione», scrive la giornalista scientifica
Gaia Vince (Il secolo nomade), ricordando come le crisi climatiche spostino dieci volte più persone che le guerre. Ci dimentichiamo della doppia direzione degli effetti disastrosi sul clima delle guerre.
Da un lato, carestie, siccità, distruzioni favoriscono nei Paesi colpiti migrazioni, scontri e conflitti armati. Dall’altro, le guerre producono un forte incremento delle emissioni di gas serra, la diffusione di sostanze dannose e la distruzione degli ecosistemi. Secondo un rapporto della Fondazione europea per il clima in Ucraina sono state emesse, soltanto nel primo anno di guerra, 120 milioni di tonnellate di gas serra, pari alla produzione annuale del Belgio. Come scrive Naomi Oreskes, «maestra del nostro tempo» (Premio Nonino 2024), richiamando l’enciclica Laudato si’: «Non siamo di fronte a due crisi separate, una ambientale e l’altra sociale, ma piuttosto a un’unica crisi complessa che è allo stesso tempo sociale e ambientale». Occorre rendersene conto, prima che sia troppo tardi.