«E Fabiani, la maestà del popolo
A 50 anni dalla scomparsa, ricordo del primo sindaco di Firenze eletto dopo la guerra e celebrato da Neruda. Fu portatore di un pensiero politico originale per i tempi che attraversò
quando in Palazzo Vecchio, bello come un’agave di pietra, salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze, e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del vecchio fiume, delle case tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava».
Sono i primi versi della poesia che Pablo Neruda dedicò nel 1951 a Mario Fabiani. Certe volte un verso può nascondere un velo di retorica: quando Neruda dice che la maestà del popolo governava dimostra, invece, di aver intuito al primo sguardo una verità che Firenze e l’Italia avrebbero potuto verificare senza dubbio alcuno cinquant’anni fa, il 15 febbraio del 1974.
Fabiani se ne era andato da due giorni, a soli sessantadue anni: aveva lasciato la stanza di Clemente VII ventitré anni
ma per una parte grande di Firenze era rimasto il sindaco della ricostruzione, il comunista aperto e tollerante di allora e degli anni successivi. Quel giorno di febbraio successe qualcosa di più di quello che anche fra noi giovani e meno giovani di via Alamanni ci si potesse aspettare. Il corteo funebre partì dalla nuova sede della Federazione comunista fiorentina e si mosse lentamente per raggiungere Piazza della Signoria. Si sarebbero attraversate le strade delle più importanti attività commerciali che notoriamente non erano così portate verso il Pci e i suoi esponenti. Certo alla fine in Piazza della Signoria ci sarebbe stato un grande afflusso di popolo e così avvenne, ma quello che fece più impressione fu vedere i negozi, da Piazza dell’Unità a Via Calzaiuoli, senza eccezione alcuna, abbassare i bandoni in segno di lutto. Proprietari, dipendenti, clienti uscivano sulla strada e s’inchinavano per l’ultimo saluto al loro sindaco: un sindaco di tutti. Governava di nuovo, per un momento, la maestà del popolo e non era populismo, ma affetto e riconoscenza, oltre le divisioni politiche o ideologiche. Lo stesso riconoscimento, infatti, lo ebbe tre anni dopo l’altro grande protagonista della vita pubblica di Firenze: Giorgio La Pira.
L’Istituto Storico della Resistenza e il Gramsci stanno preparando un convegno su Mario Fabiani che sarà importante per riproporre all’attenzione pubblica la sua figura di combattente antifascista, di politico e di amministratore.
In questi cinquant’anni che ci separano dalla scomparsa, il ricordo di Fabiani, come quello di tante autorevoli personalità laiche della stessa o di diversa provenienza politica, è andato progressivamente riducendosi nella memoria collettiva e nello stesso dibattito pubblico. Discussione pubblica che certe volte, anzi quasi sempre, a Firenze sembra riferirsi pressoché unicamente al pensiero, alla cultura e alla storia del mondo cattolico. Tutto giusto, naturalmente, ma c’è stata anche un’altra storia che merita considerazione, al netto di tutti i fallimenti, in particolare per quanto riguarda la sinistra. Fabiani, ad esempio, non è solo il sindaco della prima ricostruzione di Firenze: è anche il portatore di un pensiero politico originale e significativo per i tempi che attraversò. Vado indietro con il mio ricordo a un giorno di primavera del lontano 1972, verso l’ora di pranzo.
Ero tornato a casa presto, da Via Alamanni, perché a desinare sarebbero arrivati Fabiani e Romano Bilenchi. Era stato Bilenchi a chiedermi di organizzare un incontro con il suo vecchio amico: salirono faticosamente i ripidi scalini che portavano alla soffitta dove abitavo in Via del Corso.
Parlarono a lungo della decisione che Romano aveva preso di chiedere di riscriversi al Pci, a distanza di tanti anni dalla rottura causata dalla chiusura del Nuovo Corriere.
Bilenchi stava per dare alle stampe il Bottone di Stalingrado, il suo rientro nella scena letteraria italiana e a questo voleva legare il ritorno all’antica passione politica.
Avrebbe concordato con Fabiani il testo della lettera da inviare a lui e non ai vertici del Pci: l’Unità la pubblicò il 9 aprile nella terza pagina.
Perché Mario…perché, al di là dell’amicizia che li aveva legati, rappresentava qualcosa che lo riportava ai motivi della fine nel 1956 del Nuovo Corriere, cioè alla critica degli esiti tragici del regime stalinista e sovietico. Bisogna partire da un punto: Fabiani è stato un uomo che ha vissuto in maniera esemplare il secolo a cui ha appartenuto: è stato un giovanissimo antifascista, capace di azioni audaci, entrato nel partito dei comunisti a Empoli che, a cavallo degli anni ’30, rappresentava un luogo speciale per la resistenza al regime di Mussolidi ni. Era dovuto emigrare prima a Parigi, poi a Mosca, ma per poco, giusto per non fare la fine di tanti italiani finiti nelle prigioni di Stalin. Era tornato in Italia a organizzare quel poco che si poteva, con grande rischio personale e infatti venne arrestato, condannato a ventidue anni di carcere, per farne nove, grazie alla caduta del Duce.
Ripensandoci diceva che aveva pensato che, tutto sommato, era meglio andare nelle carceri di Mussolini, piuttosto che in quelle di Stalin. In quell’intuizione sullo stalinismo c’è forse la radice più significativa dell’originalità
un pensiero politico che si sarebbe consolidato nella Resistenza e nel dopoguerra.
Sempre Bilenchi ricorda in uno scritto a dieci anni della scomparsa il giorno della morte di Stalin, l’arrivo insieme a Mario alla Federazione comunista, i compagni in lacrime e lui che li invitava a non piangere, perché era morto un dittatore ed era morto troppo tardi! Non era una battuta, ma la consapevolezza della crisi storica dei regimi di socialismo reale.
Una conferma fu la sera del 21 agosto del 1968. La notte precedente il Patto di Varsavia aveva invaso la Cecosloprima, vacchia, l’emozione e lo sconcerto aumentavano di ora in ora fra i militanti e i dirigenti del Pci: si seppe che in serata ci sarebbe stata una riunione in Federazione. Chi era a Firenze accorse, alcuni tornarono dalle vacanze: la tensione era alle stelle. C’era ancora qualcuno della vecchia guardia che intendeva giustificare Breznev, nonché altri che non avevano certezze nel giudicare la situazione. A un certo punto prese la parola Fabiani e sembrò cambiare la stessa aria che si respirava in quel vecchio stanzone. Non c’era mediazione teorica o concreta possibile, poiché quel sistema che chiudeva la Primavera di Praga con i cingoli dei carri armati veniva da troppo lontano e in realtà non sapeva più dove andare, se non nella violenza e nella conservazione di sé stesso. Fu un intervento che emozionò per la lucida analisi dello stato del movimento comunista e dunque del rapporto di questo con la situazione internazionale Fabiani, con il suo razionale pessimismo, indicava un futuro assai più vicino al vero di tanti altri protagonisti a lui coevi.
Non a caso Giorgio La Pira il 13 febbraio del 1974 scrisse in una lettera in sua memoria: «Firenze perde un punto di riferimento storico e politico… che aveva un rapporto essenziale con il capitolo in certo senso costitutivo della storia nuova di Firenze, dell’Italia, dell’Europa e del mondo».
❞ Antifascista, era dovuto emigrare a Parigi e a Mosca. Tornato in Italia fu arrestato Disse che in fondo era meglio andare nelle carceri di Mussolini che in quelle di Stalin