Quelle anime per niente inutili
Una comunità pugliese convertita all’ebraismo al tempo delle leggi razziali, la forza delle donne di una famiglia in crisi: Tommaso Avati racconta il suo romanzo ispirato da una storia vera
La storia è accaduta nell’Italia fascista del ’38, quando una comunità guidata da Donato Manduzio, in Puglia, si convertì all’ebraismo nel periodo in cui venivano promulgate le leggi razziali. A raccontarla con poetica sensibilità è Tommaso Avati, scrittore e sceneggiatore vincitore del Nastro d’argento al miglior soggetto per il film Il signor Diavolo diretto dal padre Pupi.
«La Ballata delle anime inutili è una storia che sanno in pochi, anche tra gli stessi ebrei. Molti anni fa provai a scrivere un soggetto per il cinema. Il film non si fece, ma quel fatto così particolare meritava di esser raccontato. Protagonista è Sofia, tredicenne che vive in una masseria nel Gargano. Il padre, con “parole che hanno i denti”, le ripete spesso che per maritarsi dovrebbe essere una donna “utile”, ma lei non lo è. L’unico con cui scambia parole è l’amico Pasquale di San Nicandro Garganico, dove si è insediata una comunità di ebrei convertiti, visti come una setta strana e misteriosa».
Anime, le sue, che sono tutto fuorché inutili.
«È un titolo antifrastico, sono anime che servono eccome. A portare avanti la memoria di una famiglia. E a trasmettere valori che potremmo credere secondari, se non rappresentassero la base e il fondamento dell’essere umano. Le “anime inutili” sono i più fragili, e i meno amati della famiglia Logreco: Sofia, Angelino, Marta. Quelli che fanno fatica, e che rivelano invece una forza inaspettata e un ruolo determinante all’interno della comunità».
Famiglia che a un tratto conosce il dramma del declino.
«Come capita a molti. Può essere una crisi economica o una rottura, un lutto, un tradimento. Ogni famiglia, prima o poi, deve fare i conti con la sopravvivenza e trovare un modo per andare avanti. Attraversano una duplice difficoltà: quando al loro interno viene introdotto “il diverso” e cioè la cultura ebraica che manda in subbuglio le consuetudini, e il momento in cui scoppia della guerra. Superare le avversità sarà compito soprattutto delle donne».
Come avvenne questa conversione nel’38?
«Per seguire gli insegnamenti di Donato Manduzio, un povero analfabeta autodidatta che imparò da solo a leggere e analizzare i testi sacri. Dopo aver avuto una visione, decise di essere l’ultimo sopravvissuto di una antica stirpe ebraica il cui compito era di dover convertire più persone possibili».
Questo fatto s’interseca con la storia dei suoi personaggi.
«Alcuni dei Logreco entrano in contatto con questa comunità di ebrei convertiti e ne subiscosopraffatto no il fascino, portando a casa la diversità, introducendo il dubbio: dalle leggi alle regole religiose e morali, che fino a poco prima erano quotidianità. Contestano quindi il potere, le consuetudini, anche i comportamenti alimentari impedendosi di consumare il maiale, che nella cultura contadina era considerato un alimento quasi totemico».
Oltre alla diversità religiosa, si parla di quella di genere.
«Della discriminazione al femminile, pensando a come le donne sono state trattate in passato per meglio comprendere certe dinamiche tristemente attuali. Il loro era un ruolo faticoso e difficile, dovevano dimostrare sempre qualcosa in più. Per dirne una, se la coppia non riusciva ad avere figli, era automaticamente colpa della sposa. Mai dello sposo».
Anche il suo precedente romanzo, «Il silenzio del mon
do», è collocato dai tempi del fascismo ai giorni nostri. È la storia di tre donne: nonna, madre e figlia, tutte non udenti.
«Mi riguarda da vicino. Parla della sordità, che conosco per averla sperimentata sulla mia pelle fin dalla nascita. So cosa vuol dire non udire, vivere in un mondo ovattato e separato, distante e mai davvero raggiungibile dagli altri».
E i suoi cari come hanno affrontato la situazione?
«Cercando di ridimensionarla il più possibile, tentando di evitare che il problema diventasse gigante, temendo che ne fossi e avvertendo, a loro volta, di non sapere come affrontarlo nel modo migliore. Così, però, tutto è stato ignorato almeno fino alla mia adolescenza».
Nel libro si avvicina alle tradizioni popolari e approfondisce tanti riti delle comunità contadine.
«Ho studiato e imparato usanze e cerimonie di quel tempo. La cultura rurale, oltre a essere arretrata, superstiziosa e per certi versi violenta, era anche dotata di una grande umanità. Nelle abitazioni contadine la donna era seduta spesso accanto al capofamiglia, mentre nelle famiglie borghesi stava alle spalle del marito».
Un altro aspetto che l’ha colpita?
«Nelle grandi case di campagna c’era una stanza dove si poteva dormire in due, in intimità. Era dedicata ai novelli sposi, mentre i familiari stavano tutti insieme: uomini, donne, bambini e persino animali lavoravano e dormivano in gruppo, in una vicinanza fisica ma anche affettiva. Costretti a lavori sfiancanti, venivano risarciti da una forte coesione comunitaria».
Sofia, la protagonista, ha una cura particolare per le parole.
«Quel personaggio, che fa fatica coi numeri a causa della discalculia, ha una dimestichezza insospettata con le parole. Ho scoperto, in un secondo momento, che c’è un’altra cultura che le tratta nello stesso modo magico in cui le maneggia Sofia. È proprio la lingua ebraica».
C’è un messaggio importante legato alla forza del perdono.
«A oggi purtroppo poco praticato, sia a livello individuale che nei rapporti tra i popoli. L’ho introdotto in modo irrazionale — il vero perdono non ha una vera ragione — ma anche in senso comprensibile, accessibile e condivisibile. Spero d’esserci riuscito».
Povero analfabeta «É una vicenda poco nota che si lega alla figura di Donato Manduzio»