A scuola di rap per frenare il disagio
Il rapper Rico Mendossa dalla strada e la condanna ai progetti di volontariato
In molti hanno intravisto una correlazione tra l’assalto al negozio Gucci di via Roma dello scorso ottobre e il desiderio di alcuni giovani di periferia di emulare gli idoli del rap e della trap, che nei loro video sfoggiano i capi firmati come simbolo del riscatto sociale e del successo. Eppure, nel rap non ci sono solo cantanti che sventolano banconote appoggiati a una Lamborghini. Quel linguaggio musicale può anche servire a veicolare dei messaggi positivi e aiutare i ragazzi a tirarsi fuori dai margini. Ne è convinto Gabriele Stazzone Manazza, in arte Rico Mendossa, il rapper di Barriera di Milano che, grazie al contratto con un’importante etichetta milanese, si sta affermando sulla scena nazionale. Mendossa nel suo nuovo singolo «10100», in uscita in questi giorni, mette in musica i problemi delle periferie torinesi pur cantando che «Torino non è Gomorra».
In molti hanno intravisto una correlazione tra l’assalto al negozio Gucci di via Roma dello scorso ottobre e il desiderio di alcuni giovani di periferia di emulare gli idoli del rap e della trap, che nei loro video sfoggiano i capi firmati come simbolo del riscatto sociale e del successo. Eppure, nel rap non ci sono solo cantanti che sventolano banconote appoggiati a una Lamborghini. Quel linguaggio musicale può anche servire a veicolare dei messaggi positivi e aiutare i ragazzi a tirarsi fuori dai margini.
Ne è convinto Gabriele Stazzone Manazza, in arte Rico Mendossa, il rapper di Barriera di Milano che, grazie al contratto con un’importante etichetta milanese, si sta affermando sulla scena nazionale. Mendossa nel suo nuovo singolo «10100», in uscita in questi giorni, mette in musica i problemi delle periferie torinesi pur cantando che «Torino non è Gomorra». Non è una storia facile la sua. Come in un volume a fumetti, i tatuaggi che ricoprono il suo corpo (a partire da un’enorme Mole Antonelliana impressa sulla schiena) sembrano raccontare la sua travagliata biografia.
I problemi incominciano a dodici anni, quando il padre se ne va di casa. La madre, ritrovatasi da sola, passa le giornate a lavorare per poter crescere i due figli. Rico è attratto dalle sirene della strada e dalle bande di quartiere, così finisce per sfogare la sua rabbia nel modo sbagliato. Negli anni della sua gioventù in Barriera iniziano ad arrivare i primi ragazzi arabi e non mancano gli scontri con quei nuovi arrivati. Ma, superata la diffidenza iniziale, quei giovani divenquartiere, tano amici. Nella proverbiale solidarietà della strada conta ciò che fai e non da dove vieni. Finite le scuole medie, Mendossa intraprende una strada sbagliata: prima la piccola criminalità e poi la tossicodipendenza. Quegli anni sono per lui un incubo e, per combattere i suoi fantasmi, durante le notti insonni mette in versi la sua rabbia e le sue paure. Quelle poesie saranno una via di uscita da quella realtà perché diverranno i testi delle sue canzoni. Inizia a cantare il rap e poi apre uno studio di registrazione in Barriera di Milano. Si concretizza così anche il suo impegno con i ragazzi del soprattutto stranieri, grazie a progetti musicali che servono a tenerli lontani dalla strada. Due anni fa Mendossa mette in rete una canzone dedicata al suo idolo, il calciatore Franck Ribéry. Nel video si vedono dei ragazzi che giocano nei campetti accerchiati dai palazzoni di periferia. Mendossa canta: «Giocando per le strade, abbiamo le menti più grosse e allenate. Insieme alle facce tagliate. Come chi? Mmmh, Ribéry». Il fuoriclasse francese è colpito positivamente dal filmato e, oltre a ripostarlo sui suoi canali social, decide di contattare il cantante torinese. Nasce così un’amicizia. A Ribéry, già impegnato in progetti benefici per i ragazzi delle banlieue, piace discutere con Mendossa dei problemi dei giovani dei quartieri popolari. E, per suggellare la loro amicizia, accetta anche di partecipare a un nuovo video di Mendossa, «Franck», sempre a lui dedicato. Nel frattempo, però, la giustizia fa il suo corso e a ottobre arriva per Mendossa una condanna per fatti accaduti dodici anni fa, quando aveva diciott’anni. I giudici gli infliggono una pena di due anni e undici mesi per rissa con lesioni aggravate, più rapina. È per lui un colpo al cuore. Decide di raccontare ai suoi fan la sua esperienza giudiziaria su Instagram e dice: «Un vero ragazzo di strada cerca di aiutare gli altri. Tutti questi gangsta che continuano a sventolare soldi sui social non vi porteranno da nessuna parte. Cercate di costruirvi un futuro il prima possibile, perché questo vuol dire essere uomini». Mendossa dovrà scontare a casa della madre gli arresti domiciliari dalle dieci di sera alle sette del mattino. Ma è riuscito a ottenere la messa alla prova, grazie al suo impegno da volontario nel progetto «Laboratorio Rap Terapeutico», nato dall’intuizione dell’artista rapper torinese Marco “Zuli” Zuliani, a seguito dell’incontro con Don Domenico Cravero. Dal 2016 ad oggi il Laboratorio Rap ha coinvolto circa 1.600 ragazzi, provenienti da contesti molto diversi di tutto il territorio della città metropolitana di Torino. Racconta Zuliani: «Svolgiamo i nostri laboratori di rap in contesti svantaggiati e incontriamo ragazzi di centri diurni, educative territoriali, minori a rischio. Grazie a questo genere di musica riusciamo a coinvolgere dei giovani che, diversamente, sarebbero difficilmente avvicinabili». Lo scopo dell’attività è quello di rendere protagonisti i ragazzi. I brani realizzati vengono poi diffusi online attraverso un digital store dell’associazione. I giovani cantano le loro storie: l’esclusione sociale, la rabbia, la timidezza. Aggiunge Zuliani: «Noi promuoviamo il rap come la narrazione del sé. Perché quando riesci a raccontarti ti metti in relazione con gli altri. In qualsiasi contesto di difficoltà sociale ed economico c’è sempre un potenziale ed è importante che non vada sprecato».
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