Corriere Torino

Via i letti dalla cappella dell’ospedale di Orbassano Ora tornano prete e fedeli

L’immagine era finita anche sul New York Times

- Di Lorenza Castagneri

Gliel’hanno restituita nel fine settimana. La chiesa di San Luigi Gonzaga, nell’ospedale di Orbassano, è tornata a don Luciano Gambino. Un mese fa era finita sui siti di tutto il mondo. Con quelle brandine sistemate là dove c’erano i banchi, l’organo e l’altare sullo sfondo, per accogliere i malati che stavano riempiendo pronto soccorso e sempre più reparti. Ma poi l’effetto delle restrizion­i ha iniziato a farsi notare.

I pazienti Covid da ricoverare sono diminuiti, anche se gli ospedalizz­ati in Piemonte restano 4.588, ieri ci sono state 911 nuove diagnosi, seppur in calo, più 64 decessi. Così una settimana fa, le brandine già pronte con materassi e coperte sono state rimosse.

E, ieri, don Luciano è tornato a celebrare la messa delle 16,30. «Gesú non avrebbe detto di no ai letti in chiesa. Ma non ci hanno nemmeno avvisati, hanno fatto tutto di notte e quegli spazi non sono serviti», confessa il sacerdote con un filo di voce, appena uscito da un reparto Covid.

Giura che l’immagine della

cappella stravolta, finita anche sul New York Times, lo ha lasciato quasi indifferen­te.

«Non vengo dal Bronx, ma ho fatto la mia gavetta, ho lavorato otto anni in carcere tra Torino, Ivrea a Saluzzo, qualcosa ho visto. Non mi spaventano di certo dei lettini».

Quel che a lui e al collega, don Ihor Holynskyy, non è andato giù sono state proprio la fretta e il dubbio che sia trattato solo di un’operazione di immagine, mentre la comunità dell’ospedale era privata della sua chiesa.

«Che non viene vissuta soltanto nel momento della messa — spiega —. Questa è un’oasi per lo spirito, dove i malati, i loro parenti, ma anche gli operatori trovano pace, condividon­o la loro sofferenza, possono piangere e dire una preghiera. Io giro molto nei reparti ma se rimanessi fermo in chiesa avrei il mio bel da fare. Perché la gente, anche se non è credente, con un sacerdote si apre».

È successo ancora ieri mattina. In uno dei banchi, appena risistemat­i, si è seduta una signora di Stradella, provincia di Pavia: suo marito si sta curando al San Luigi per un tumore. Anche lei aveva visto la chiesa al telegiorna­le. «Sono felice che si possa di nuovo venire qui — ha detto —. Mi aiuta».

Dai pazienti Covid, bloccati in reparto, va invece don Luciano, che rappresent­a anche gli oltre cento cappellani di ospedali e Rsa della Diocesi di Torino. In primavera ha dato battaglia per continuare a svolgere il suo ruolo accanto a quelli che definisce «naufraghi».

«I malati di Covid sono come persone che stanno affogando e chiedono aiuto al barcaiolo. E lo fanno con gli occhi e le mani perché il casco gli impedisce di parlare. Le assicuro che anche per noi sacerdoti è molto angosciant­e».

Ma don Luciano si barda anche quattro volte al giorno per stare con loro. In questi mesi ha confessato anche un paziente per iscritto — «poi ho distrutto tutto» — è stato accanto a un amico, 92 anni, che non ce l’ha fatta, e a tanti operatori del San Luigi, contagiati pure loro.

«Ma vorrei fare molto di più: mi piacerebbe avere 100 ore al giorno, ma anche io ne ho 24. Il tempo purtroppo è democratic­o».

Il sacerdote

Don Luciano: «Gesù non avrebbe detto di no ai malati in chiesa»

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