La lettera che accusa il padre assassino: «Voleva una schiava»
A Volvera: «Un padre padrone». Il pm chiede 30 anni
Abrogata la parola papà, in sette paginette di quaderno a righe, i cinque figli e figlie raccontano chi fosse davvero Nicola Cirillo, 58 anni, l’uomo che «quel maledetto 10 giugno» 2020 uccise a colpi di pistola la ex, Cristina Messina, 54, ferendo gravemente la figlia Giusy, 28, ora paralizzata. Era «un padre padrone» e «voleva una donna come schiava».
Abrogata la parola papà, in sette paginette di quaderno a righe, i cinque figli e figlie raccontano chi fosse davvero Nicola Cirillo, 58 anni, l’uomo che «quel maledetto il 10 giugno» 2020 uccise a colpi di pistola la ex, Cristina Messina, 54, ferendo gravemente la figlia Giusy, 28, ora paralizzata. Era «un padre padrone» e «l’unica cosa che voleva era una donna come schiava». Righe contenute nella memoria delle parti civili — tutelate dagli avvocati Gian Luca e Ruggero Marta — e depositata alla corte d’appello, il giorno della richiesta pena della Procura: 30 anni di reclusione, e non l’ergastolo solo perché le aggravanti (premeditazione e futili motivi) sono state soppesate come equivalenti alle attenuanti. Parità frutto di un accordo tra le parti, per acquisire atti di indagini dei carabinieri, abbreviare l’istruttoria e risparmiare ai parenti della vittima sofferenti deposizioni.
Rimane un crimine orrendo, ben riassunto dalla requisitoria del pubblico ministero Paolo Toso, partito dalla raggelante confessione resa dall’uomo, due ore dopo il delitto, avvenuto in un appartamento di Volvera. Una confessione — «arrivata quando ormai il quadro probatorio era evidente» — fatta senza un minimo di pentimento e di dolore, e con raccapriccianti parole verso l’ex moglie. Un racconto, argomenta il pm, «arido, che fa venire in mente le parole di Hannah Arendt: “Facevano cose mostruose, ma erano uomini qualunque, non mostri». Di qui, «un atto di banalità malvagia». Poco prima, in collegamento dal carcere di Ivrea, l’imputato aveva ridotto al minimo le sue dichiarazioni spontanee: «Sono pentito amaramente di quel che ho fatto, ma in quel momento non capivo più niente. Mi dispiace profondamente». Detto che la relazione psichiatrica non ha evidenziato alcuna patologia, per rendersi conto di come andarono le cose e di quale fosse l’indole dell’assassino, basta riprendere un passo della confessione. Come fa appunto il pm e le stesse parti civili: «Sono salito in casa per sparare, non per parlare». E poi di seguito, da automa. Anche per ripescare un folle e spregevole movente, tra i bigliettini di targhe annotate, insulti e recriminazioni: «Quella casa lì l’ho aggiustata io e lei si era tenuta la collanina d’oro». E se lui si autodefinisce «un bonaccione», sono le pagine dei figli a riportare uno squarcio di realtà: «È sempre stato un violento, in modo fisico e psicologico». Che pensava a se stesso, e basta: «A lui interessava solo avere un pasto caldo a tavola, la tv, le sue amate sigarette e giocare le schedine», «mangiandosi per sé uno stipendio intero». Morale: era «un uomo silenzioso, menefreghista, anaffettivo con i figli (sia quelli acquisiti che propri), che non ha mai amato e rispettato nostra madre». Il 23 dicembre, davanti alla corte presieduta dal giudice Alessandra Salvadori, toccherà alla difesa (avvocati Maria Frezza e Gabriele Pipicelli) poi, la sentenza.
L’assassino al pm Una confessione arida, senza dolore: «Salito in casa per fare fuoco, non per parlare»
La figlia ferita A Giusy, che gli aprì la porta, sparò due volte: è ancora ricoverata in ospedale, paralizzata