L’azzurro secondo Daria
Il suo nuovo libro «Oggi faccio azzurro» tra sofferenza e nuova consapevolezza
Tra le sfumature della scrittura di Daria Bignardi, che da poco ha pubblicato con Mondadori il romanzo «Oggi faccio azzurro», c’è una connessione con la Mitteleuropa e la Germania. Oggi faccio azzurro è un detto medioevale tedesco che significa: «Oggi non vado a lavorare», era degli artigiani che il lunedì, finalmente vedevano il cielo. E l’azzurro è anche quello del Cavaliere di Kandinskij di cui la pittrice e protagonista Gabriele Münter era la compagna. La storia è quella della sofferenza atroce della moglie abbandonata Galla (come Galla Placidia) che altro non riesce a fare se non andare dalla sua psicanalista e in carcere, dove fa volontariato. Sarà la voce di Gabriele, che inizia a sentire dentro di sé dopo aver visto una sua mostra a Monaco di Baviera, a tirarla fuori dal suo pantano. L’autrice presenterà il romanzo martedì alle 21 nel salotto digitale del Circolo dei Lettori, su Facebook e sul sito, in compagnia di Elena Loewenthal.
Nei suoi libri sempre c’è un femminile. Quale evoluzione ha in questo romanzo e verso cosa sta andando?
«Sarebbe bello se riuscissi a rispondere a questa domanda, ma non mi è possibile farlo. Lo capirò solo scrivendo dove andrà. Sospetto però sempre più verso un femminile libero anche da se stesso. In questo romanzo la protagonista si trasforma durante il racconto. All’inizio è una donna spezzata e dolente, che sembra troppo fragile, fa quasi rabbia per quanto è passiva e si addossa tutte le colpe per la separazione dal marito. Ma la voce di Gabriele, la pittrice vissuta cento anni prima, che comincia a sentire all’improvviso, la porterà a capire alcune cose di sé che aveva lasciato in sospeso».
Come sono nate Galla e Gabriele?
«Ho conosciuto Gabriele Münter per caso, come Galla: vedendo una mostra delle sue opere alla Lenbachhause di Monaco di Baviera. Da quel momento, la voce di Gabriele non ha più smesso di parlarmi, come fa con Galla, che tormenta, scuote, prende in giro. Gabriele Münter si è proprio imposta: era cent’anni che voleva dire la sua su Kandinskij. Galla invece l’avevo in mente da un po’, è una donna che ha lasciato indietro troppe cose della sua vita e della sua infanzia, ma che non è mai diventata cinica. Questo le permette di essere aperta agli incontri che farà».
Ci sono altri due personaggi, Bianca e Nicola, che hanno caratteristiche molto precise. Perché li ha scelti?
«Mi hanno dato molto, costruirli e dare loro un linguaggio distintivo è stato un lavoro impegnativo e appassionante. Nel romanzo sono fondamentali per dare un punto di vista differente sia su Galla che sul tema dell’abbandono. Apparentemente tutti soffrono per amore, in realtà c’è qualcosa di più antico o più nascosto da risolvere per ognuno di loro».
La narrazione ha sempre bisogno di un dolore lacerante?
«I dolori che tutti più o meno sperimentano nella vita sono narrativamente interessanti. Permettono un dentro e un fuori dall’emozione che ha un effetto sia comico che catartico. Tutti noi ne faremmo volentieri a meno. Ma uno scrittore almeno ci trova materiale di lavoro».