Yin e Yang al ristorante
Da un lato ci sono la preoccupazione, la prudenza, anche una certa disabitudine alla libertà. Dall’altra ci sono la smania, la voglia, cinque settimane senza sedersi al tavolo di una trattoria.
Ieri mattina — al trascolorare del Piemonte — in tanti ci siamo sentiti posseduti da due sentimenti opposti ma intrecciati, come lo yin e lo yang. Il nero che dice «stai a casa, chiuso, al sicuro», il bianco che ribatte «esci, torna libero, vivi»: ma nel primo c’è una goccia del secondo e viceversa. Ebbene, quando sorge il sole e lo vediamo giallissimo, in famiglia leggiamo il fenomeno come un segno: scegliamo il bianco con una goccia di nero. Che fuor di metafora significa: andiamo in montagna, ma in un luogo remoto; e poi mangiamo al ristorante, ma in un locale tranquillo. Così alle 12 siamo al Lago del Laux, un grappolo di case a un passo da Usseaux. Neve ovunque. Immacolata. Farinosa. Il cielo terso. Il silenzio ovattato della montagna.
Dopo quaranta giorni trascorsi nel raggio di pochi metri da casa, pare il paradiso. Finite la passeggiata e la battaglia a palle di neve, eccoci nel ristorante dell’hotel poggiato sull’acqua ghiacciata. Tutto ci sembra meraviglioso: l’atmosfera da baita, la gentilezza del personale, le cajette (le tipiche polpette di patate) con la mustardela, la Barbera, gli altri avventori.
Mi verrebbe da fare come Nanni Moretti ne La messa è finita: improvvisamente esclamare a voce alta «vi amo, voi tutti che siete in questo bar». Siamo distanziati, mettiamo la mascherina tra le portate, non ci attardiamo. Lo yin mormora «sei incauto», lo yang manda scariche di serotonina.
Così, nel primo pranzo fuori dopo tanto, capisco quel che farò, finché si potrà: non rinuncerò ai ristoranti, ma con juicio. Un pallino di yin — la prudenza — con intorno lo yang della felicità.