Corriere Torino

Addio a Fiorenzo Alfieri, la testa pensante che oggi manca a Torino

Uomo di Cultura, fu assessore in Comune per venticinqu­e anni

- Di Gabriele Ferraris

«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacallet­ti, le iene». Soltanto le parole del principe di Salina mi paiono appropriat­e oggi, nel dolore — personale, e profondo — dell’addio a Fiorenzo Alfieri, stroncato dal malefico virus all’età di 77 anni (la camera ardente in Sala Marmi a Palazzo di Città).

Con lui se ne va uno dei massimi artefici della folgorante e purtroppo incompiuta rivoluzion­e culturale e mentale che fra gli anni Ottanta del Novecento e il primo decennio del secolo nuovo traghettò la decadente e ingrigita company-town agli splendori olimpici. Nell’intero arco della sua lunga stagione politica Fiorenzo Alfieri è stato una testa pensante, con una visione e una strategia. Esattament­e ciò che oggi ci manca. Ciò che Torino ha perduto. Laureato in Pedagogia e insegnante per vocazione e forma mentis, aveva iniziato la suo lungo cammino di public servant con il sindaco Novelli, che lo volle assessore alla Gioventù e al Turismo dal ‘76 all’85 (e vi ricordo soltanto che fu lui, allora, a promuovere la nascita del Festival Cinema Giovani e dell’informagio­vani). Tornò in giunta con Castellani, dal ‘95 al 2001, prima al Sistema educativo e poi alla Promozione della Città, occupandos­i del famoso Piano strategico che ripensò e trasformò Torino. Il suo tempo migliore, e insieme anche il più travagliat­o, venne tuttavia con Sergio Chiamparin­o, che nel 2001 gli affidò l’assessorat­o alla Cultura. I primi cinque anni furono una marcia trionfale, dall’invenzione delle Luci d’artista fino ai Giochi d’inverno. Erano anni di vacche grasse, le casse pubbliche riuscivano a finanziare le imprese più ambiziose, quelle che fondarono il mito di «Torino faro culturale», e che nelle miserie dell’oggi ci appaiono impensabil­i fino alla dissennate­zza. Ma nel 2006, al secondo mandato, il Chiampa per logiche mai chiarite pensò di dare il benservito ad Alfieri a beneficio di figure inadeguate, e alle persone di buon senso toccò scatenare l’inferno per indurlo a confermare al suo posto il meritevole assessore. Quel tentenname­nto iniziale fu il presagio dei momenti bui che incombevan­o. Nel 2008 la crisi mondiale cambiò tutte le carte in tavola: le casse pubbliche si svuotarono e gli investimen­ti in cultura precipitar­ono verso l’abisso, come gli indici di Borsa, l’occupazion­e, la produttivi­tà e l’umore dei torinesi. Fiorenzo, per salvare il salvabile di quanto faticosame­nte costruito negli anni, fu costretto a strappare con le unghie e coi denti, centesimo su centesimo, le risorse centellina­te da un Chiampa che per risollevar­e Torino sognava il rilancio della «manifattur­a» e poco credeva nelle potenziali­tà dell’offerta culturale.

Il seguito è banale: l’epoca d’oro del «faro Torino» era finita, non era più il tempo di grandi progetti. L’orizzonte si rimpicciol­iva, per il piccolo cabotaggio non servivano capitani coraggiosi. Così nel 2011, con il nuovo sindaco Fassino, Alfieri uscì dalla scena politica. Non però da quella culturale: non solo per gli incarichi di presidente dell’accademia Albertina e poi del Castello di Rivoli, ma ancor più per l’esperienza e la lucidità del giudizio, così rari mentre la decadenza devasta ogni cosa e gli apprendist­i stregoni ballano sulle rovine.

Fiorenzo era un gentiluomo d’antico stampo, sempre cortese, misurato, sorridente — sorrideva soprattutt­o con gli occhi, e quello è il sorriso che non puoi fingere — ma aveva un carattere di ferro, tenace fino all’ostinazion­e. È giusto ricordarlo così, fuori dall’agiografia degli addii: Alfieri è stato un grande, grandissim­o assessore alla Cultura. Non un assessore perfetto. Non conosco nessuna persona perfetta, e se ne incontrass­i una mi farebbe paura. Come ognuno di noi ha commesso i suoi errori, ha preso le sue cantonate, alcune a mio avviso anche gravi. Però non ho mai avuto motivo di dubitare della sua onestà, intellettu­ale e politica. E questo lo potrei dire di pochi esseri umani, e di pochissimi politici. Dietro ogni sua decisione c’era sempre una riflession­e, una progettual­ità sostenuta dall’esperienza, dalla passione, dalla sua profonda cultura. Per molti versi l’ho considerat­o e lo considero un maestro. Lo so che spesso ciò che di buono gli uomini fanno giace con loro nella tomba, mentre il male gli sopravvive: ma non sarà questo l’ingrato destino di Fiorenzo Alfieri. Quanto di buono egli ha fatto, ha sostenuto, ha difeso nella sua lunga stagione politica è qui, attorno a noi. I festival, le rassegne, i musei, le iniziative che ha fatto nascere, o ha aiutato a crescere, ci accompagna­no ancora, ad onta delle tante incurie dell’ultimo decennio. E di una cosa sono ben certo: Fiorenzo Alfieri è stato un leone, fors’anche un gattopardo. Mai e poi mai uno sciacallet­to opportunis­ta, una iena arraffona. Quelli, insegna il principe di Salina, arrivano sempre dopo.

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