Addio a Fiorenzo Alfieri, la testa pensante che oggi manca a Torino
Uomo di Cultura, fu assessore in Comune per venticinque anni
«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene». Soltanto le parole del principe di Salina mi paiono appropriate oggi, nel dolore — personale, e profondo — dell’addio a Fiorenzo Alfieri, stroncato dal malefico virus all’età di 77 anni (la camera ardente in Sala Marmi a Palazzo di Città).
Con lui se ne va uno dei massimi artefici della folgorante e purtroppo incompiuta rivoluzione culturale e mentale che fra gli anni Ottanta del Novecento e il primo decennio del secolo nuovo traghettò la decadente e ingrigita company-town agli splendori olimpici. Nell’intero arco della sua lunga stagione politica Fiorenzo Alfieri è stato una testa pensante, con una visione e una strategia. Esattamente ciò che oggi ci manca. Ciò che Torino ha perduto. Laureato in Pedagogia e insegnante per vocazione e forma mentis, aveva iniziato la suo lungo cammino di public servant con il sindaco Novelli, che lo volle assessore alla Gioventù e al Turismo dal ‘76 all’85 (e vi ricordo soltanto che fu lui, allora, a promuovere la nascita del Festival Cinema Giovani e dell’informagiovani). Tornò in giunta con Castellani, dal ‘95 al 2001, prima al Sistema educativo e poi alla Promozione della Città, occupandosi del famoso Piano strategico che ripensò e trasformò Torino. Il suo tempo migliore, e insieme anche il più travagliato, venne tuttavia con Sergio Chiamparino, che nel 2001 gli affidò l’assessorato alla Cultura. I primi cinque anni furono una marcia trionfale, dall’invenzione delle Luci d’artista fino ai Giochi d’inverno. Erano anni di vacche grasse, le casse pubbliche riuscivano a finanziare le imprese più ambiziose, quelle che fondarono il mito di «Torino faro culturale», e che nelle miserie dell’oggi ci appaiono impensabili fino alla dissennatezza. Ma nel 2006, al secondo mandato, il Chiampa per logiche mai chiarite pensò di dare il benservito ad Alfieri a beneficio di figure inadeguate, e alle persone di buon senso toccò scatenare l’inferno per indurlo a confermare al suo posto il meritevole assessore. Quel tentennamento iniziale fu il presagio dei momenti bui che incombevano. Nel 2008 la crisi mondiale cambiò tutte le carte in tavola: le casse pubbliche si svuotarono e gli investimenti in cultura precipitarono verso l’abisso, come gli indici di Borsa, l’occupazione, la produttività e l’umore dei torinesi. Fiorenzo, per salvare il salvabile di quanto faticosamente costruito negli anni, fu costretto a strappare con le unghie e coi denti, centesimo su centesimo, le risorse centellinate da un Chiampa che per risollevare Torino sognava il rilancio della «manifattura» e poco credeva nelle potenzialità dell’offerta culturale.
Il seguito è banale: l’epoca d’oro del «faro Torino» era finita, non era più il tempo di grandi progetti. L’orizzonte si rimpiccioliva, per il piccolo cabotaggio non servivano capitani coraggiosi. Così nel 2011, con il nuovo sindaco Fassino, Alfieri uscì dalla scena politica. Non però da quella culturale: non solo per gli incarichi di presidente dell’accademia Albertina e poi del Castello di Rivoli, ma ancor più per l’esperienza e la lucidità del giudizio, così rari mentre la decadenza devasta ogni cosa e gli apprendisti stregoni ballano sulle rovine.
Fiorenzo era un gentiluomo d’antico stampo, sempre cortese, misurato, sorridente — sorrideva soprattutto con gli occhi, e quello è il sorriso che non puoi fingere — ma aveva un carattere di ferro, tenace fino all’ostinazione. È giusto ricordarlo così, fuori dall’agiografia degli addii: Alfieri è stato un grande, grandissimo assessore alla Cultura. Non un assessore perfetto. Non conosco nessuna persona perfetta, e se ne incontrassi una mi farebbe paura. Come ognuno di noi ha commesso i suoi errori, ha preso le sue cantonate, alcune a mio avviso anche gravi. Però non ho mai avuto motivo di dubitare della sua onestà, intellettuale e politica. E questo lo potrei dire di pochi esseri umani, e di pochissimi politici. Dietro ogni sua decisione c’era sempre una riflessione, una progettualità sostenuta dall’esperienza, dalla passione, dalla sua profonda cultura. Per molti versi l’ho considerato e lo considero un maestro. Lo so che spesso ciò che di buono gli uomini fanno giace con loro nella tomba, mentre il male gli sopravvive: ma non sarà questo l’ingrato destino di Fiorenzo Alfieri. Quanto di buono egli ha fatto, ha sostenuto, ha difeso nella sua lunga stagione politica è qui, attorno a noi. I festival, le rassegne, i musei, le iniziative che ha fatto nascere, o ha aiutato a crescere, ci accompagnano ancora, ad onta delle tante incurie dell’ultimo decennio. E di una cosa sono ben certo: Fiorenzo Alfieri è stato un leone, fors’anche un gattopardo. Mai e poi mai uno sciacalletto opportunista, una iena arraffona. Quelli, insegna il principe di Salina, arrivano sempre dopo.