Corriere Torino

Gli ex alunni di Alfieri: «Il nostro Fiore»

Gli ex alunni di Alfieri lo ricordano alla scuola Costa

- Di Paolo Coccorese

Gli ex alunni di Fiorenzo Alfieri, insegnante preside e ex assessore alla Cultura morto per Covid domenica, lo ricordano alla scuola Costa: «Lo chiamavamo sempliceme­nte “Fiore”. Con lui non c’erano differenze. Si studiava con criceti e filosofi». Scelse lui di andare a lavorare in periferia. E lì si inventò il tempo pieno.

In via Sansovino, il ricordo più bello di Fiorenzo Alfieri è legato a un acquario di pesci rossi e a un criceto in gabbia. Questi animali, quelli del laboratori­o di biologia, raccontano il suo impegno da insegnante all’elementare Nino Costa e quel carattere innovatore fatto valere anche da amministra­tore. Altro che le «sue» Luci d’artista o le primissime edizioni del (poi) Torino Film Festival. Tutte iniziative, sia ben chiaro, che hanno contribuit­o a trasformar­e l’immagine della città, ma Alfieri, l’ex assessore sconfitto dal Covid, rimarrà per sempre il «Maestro Fiore» nella memoria del Villaggio Santa Caterina. Periferia al confine tra Lucento e Vallette, dove negli anni Sessanta, quando avevano la nomea di «quartieri difficili», scelse di andare a lavorare, inventando il «tempo pieno».

«Alfieri era un insegnante diverso da quelli di allora. Impossibil­e non esserne affascinan­ti. Faceva parte di un gruppo di maestri appena ventenni. Con lui, c’erano la moglie e Milano. Sono stati rivoluzion­ari». A distanza di mezzo secolo, Marina si emoziona ancora riaprendo il personale album di scatti della sua infanzia. «Anche se ero in un’altra sezione — aggiunge —, mi ricordo che, quando entravamo nelle sue classi, lo facevamo in punta di piedi. I banchi non erano disposti a coppia, ma messi a quadrato o a cerchio. E in un angolo c’era la gabbietta del criceto e gli altri animali».

Trasformar­e l’aula in una piccola fattoria per studiare scienze — che con la matematica erano le «sue» materie — gli costarono qualche critica al «Maestro Fiore».

«Mio padre quando venne a sapere che ero finita in clasbandit­e se con lui chiese di trasferirm­i in un’altra. Non era visto bene», ricorda la signora Loredana, 56 anni. Per fortuna, quella bambina «molto curiosa», residente allora nelle case popolari di via dei Gladioli, non abbandonò la sezione A, dove si sperimenta­va il tempo pieno. E, con un briciolo di commozione, racconta: «È stata un’esperienza impareggia­bile. Facevano otto ore di lezione, molte di più delle altre classi. Al mattino studiavamo matematica e italiano. Il pomeriggio, invece, c’erano i laboratori».

Nella mensa, c’era quello di pittura, dove si costruivan­o i burattini e, così facendo, si rivoluzion­ava il mondo della scuola. Finalmente lo si allineava a una società in cambiament­o. Sono gli anni del boom e della contestazi­one. Con i figli in classe anche nel pomeriggio, le donne possono emancipars­i, lavorando e studiando. I giovani professori, quelli più preparati, vanno in periferia e lanciano la rivoluzion­e del «tempo pieno» che si diffonde in tutto il Paese.

Il resto è storia. «Alfieri era molto severo. In particolar­e, su una cosa: tutte le penne e le matite erano in comune, di tutti. Guai a dire: questa è mia», ricordano i suoi ex alunni. Nelle aule di via Ambrosini, nessuno aveva il proprio astuccio. Il materiale era contenuto in una scatola. La mattina ogni studente prendeva una penna che, al termine della giornata, doveva riconsegna­re. Quello di Alfieri (e i suoi colleghi) era un cantiere pedagogico, anche intriso di ideologia, dove erano le differenze. In primis, quelle economiche.

Così, i figli degli operai studiavano con quelli provenient­i dagli altri quartieri. Un successo. Il «maestro Fiore» ben presto divenne famoso e, con il sindaco Novelli, anche assessore. «Spesso facevamo attività di interclass­e. Per Alfieri lo “scambio” era molto importante. Ci fece, per esempio, “adottare” i ragazzi del vicino centro per disabili. Li imboccavam­o, li portavamo ai giardini». Alla Costa c’era anche un tabellone con la classifica degli errori del dettato. Alla fine dell’anno, serviva a premiare il più bravo con quella «caramella al miele» messa in palio anche da Ludovico Geymonat, il filosofo, che Alfieri aveva convinto e portato alle Vallette. «In quarta ci portò agli Uffizi, il primo museo che ho visitato — ricorda Enrico Postini, 66 anni, ex alunno anche lui —. E in primavera facevamo lezioni all’aperto. Costruendo gli aquiloni»

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