Corriere Torino

«Mio padre, il Generale»

L’educazione rigida, le vacanze in tenda, la sofferenza nel ’68 e gli studi di teosofia: la figlia Carla racconta il fondatore del Museo Micca scomparso nel 2008

- Paolo Morelli

Stimato militare, storico e fondatore, fra i suoi vari progetti, del Museo Pietro Micca di Torino. Il Generale Guido Amoretti fu tutto questo e dopodomani cadrà il centenario dalla sua nascita. Per l’occasione, il «suo» museo gli dedicherà un evento alle 16, sui propri canali web, con l’obiettivo di ricostruir­ne la figura, la forza e il lavoro in ambito culturale. Una personalit­à influenzat­a dalla madre Maria e dal padre Oreste, cresciuta grazie alla moglie Maria Teresa e trasmessa ai figli, Oreste e Carla: il primo ha affiancato il padre nel gruppo scavi e nel gruppo storico, la seconda l’ha accompagna­to successiva­mente. L’appuntamen­to in streaming è promosso dal Generale Franco Cravarezza, direttore del museo, per il ciclo Pietro Micca Tour. Carla Amoretti, per 41 anni docente di matematica, sarà tra gli ospiti: ora ha quasi concluso la catalogazi­one dell’immenso archivio di famiglia, avviata 12 anni fa.

Carla Amoretti, che uomo era suo padre?

«La sua dimensione di storico non influenzav­a la famiglia: i miei ex compagni di liceo hanno scoperto soltanto due anni fa chi fosse mio padre (è scomparso nel 2008, ndr). Tutto veniva vissuto con umiltà, per l’abitudine a fare le cose con semplicità. Dal ’56 in avanti, ad esempio, abbiamo fatto un viaggio ogni anno senza mai andare negli alberghi, ma sempre in tenda. Era tutto ben organizzat­o perché lui era un’ottima guida e infatti per il museo ebbe un seguito enorme. Ma non l’ho mai visto vantarsi o autoincens­arsi, era un combattent­e».

La carriera militare ne aveva formato la tempra?

«Quella formazione aveva inculcato nel suo carattere una parte molto rigorosa, bilanciata da una parte affettiva altrettant­o importante. Il connubio fra queste due cose gli ha dato equilibrio. Con noi figli l’educazione era rigida, l’ho scoperto amorevole quando l’ho visto muoversi nelle difficoltà con il suo gruppo storico: emergeva un suo lato molto umano».

Che rapporto aveva con gli altri?

«Ha avuto spesso degli ostacoli, ma li ha sempre affrontati con uno spirito di grande umanità, anche con le persone con cui si scontrava, arrivava sempre al punto di ridare la mano. Del resto aveva una enorme capacità di socializza­re e fu molto amato anche dai militari, soprattutt­o quando fu Capitano dei lagunari. Con me? Ho avuto i miei scontri, come tutti i figli con i genitori».

Poi?

«Durante questo primo lockdown, a marzo, ho scritto 115 pagine di ricordi, fra cui un passaggio sulla rottura di cinque anni, in due diversi momenti, avuta con mio padre. Fu una rottura politica avvenuta gradualmen­te e per diversi motivi. In pieno ’68 osservavo ma non partecipav­o, poi ho deciso di conoscere le sinistre. Quindi chiesi a mio padre di iscriverci a Scienze politiche per studiare insieme quel mondo: lo visse come un rifiuto nei confronti dei suoi valori. Furono anni di sofferenza, mi diseredò ma ancora oggi rispetto quella decisione: mi lasciò libera».

Come riusciste a riavvicina­rvi?

«Andando avanti mi rendevo conto che certe cose non facevano per me, ma anche per mio padre fu un periodo catartico. Frequentò le lezioni di teosofia di Bernardino Del Boca e questo lo aiutò ad accettarmi. Pian piano ci siamo riavvicina­ti. Nel 2003 abbiamo lavorato per la prima volta fianco a fianco, su un campo storico. Nel 2006, per il Trecentena­rio dell’assedio di Torino, mi chiese aiuto. La storia, in effetti, ci ha tenuti insieme, è nel dna della famiglia».

Quando mi avvicinai alla sinistra, lo visse come un rifiuto dei suoi valori: mi diseredò, ma mi lasciò libera

❞ Per i 300 anni dall’assedio mi chiese aiuto: la storia ci ha tenuti insieme

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In viaggio Un’immagine dell’archivio di famiglia di Carla Amoretti in cui la si vede, ragazzina, in tenda con il padre, Guido Amoretti, la madre Maria Teresa e il fratello Oreste: «Dal ’56 in avanti abbiamo fatto un viaggio ogni anno senza mai andare negli alberghi, ma sempre in tenda. Era tutto ben organizzat­o perché lui era un’ottima guida e infatti per il museo ebbe un gran seguito»

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