Dal reale al virtuale, ma adeguandosi
La GMD – Grande Migrazione Digitale - delle istituzioni culturali è nata nell’emergenza del primo lockdown ed è stata improvvisata e pionieristica, senza un’idea precisa né della meta, né degli strumenti per raggiungerla. Se l’evento non si può realizzare in presenza del pubblico — ci si è detti — lo si porta in rete e il gioco è fatto.
La GMD – Grande Migrazione Digitale delle istituzioni culturali è nata nell’emergenza del primo lockdown ed è stata improvvisata e pionieristica, senza un’idea precisa né della meta, né degli strumenti per raggiungerla. Se l’evento non si può realizzare in presenza del pubblico — ci si è detti — lo si porta in rete e il gioco è fatto. Cambia il «medium» (il web surrogato della sala dove si svolge l’evento), mentre resta immutato il messaggio (l’evento stesso). Eppure Mashall Mcluhan ci aveva messi sull’avviso fin dagli Anni Sessanta: il medium è il messaggio.
Oggi qua e là si intravedono alcuni segnali di evoluzione del modello «emergenziale»: ad esempio, le «Passeggiate» del Museo Egizio — «passeggiate del direttore» nella prima fase, e adesso «musicali» — sono in effetti produzioni originali pensate per il web. Ma in genere l’approccio al web resta legato al classico «streaming» che altro non è una «diretta tivù», però detto in inglese, che fa moderno. Ciò vale anche per il virtuoso esperimento del Regio, che si gioca la carta del «Così fan tutte» di Muti in esclusiva — a pagamento — per internet e Sky: iniziativa bella ma non innovativa, dato che la lirica è in tivù tutti i giorni su Rai5, gratis e peraltro senza grandi ascolti.
Qualche giorno fa ho chiesto Giulio Biino, il presidente del Circolo dei Lettori, un giudizio su «Vita Nova» e in genere sull’esperienza dei «Saloni del Libro on line» di quest’anno. Biino ha convenuto che, pur a fronte di risultati confortanti, la perfezione è ancora lontana. La natura stessa del Salone del Libro presuppone la presenza, la partecipazione, la centralità del pubblico: ma — sostiene Biino — indietro non si torna e anche in futuro non rinunceremo a un sistema misto reale-virtuale che comporta innegabili vantaggi. Non ultimo la moltiplicazione esponenziale del pubblico. Tremila spettatori on line per una conferenza — che in sala vedrebbero in 300 — sono forse poca cosa per gli standard di internet, ma per la cultura sono un exploit fenomenale.
Tutto vero. Però molte cose vanno ripensate. Lo strumento (medium) che veicola il contenuto, e il contenuto stesso (messaggio), non possono — non soltanto, almeno — essere la pura e semplice videoripresa dell’evento. Non funziona
Una famiglia protetta dalle mascherine in visita al Museo Egizio di Torino così: l’evento è altro rispetto alla sua trasmissione in rete.
Immaginate una conferenza di Alessandro Barbero al Salone del Libro, davanti al pubblico. Chi vi assiste si sente ed è parte di ciò che sta avvenendo. C’è condivisione. Attenzione. Reazione emotiva. E’ un rito collettivo. Nessuno, mentre si partecipa a un rito, si occupa d’altro, nessuno leggiucchia il giornale o spignatta in cucina o si fa un pediluvio pensando ai casi propri. Mediato dallo schermo di un computer o di un televisore quello stesso evento cambia natura. Per chi vi assiste è un’esperienza passiva e prolungata che esige una soglia d’attenzione alta: caratteri tipici del linguaggio televisivo novecentesco, precedente l’era del telecomando, allorché le famiglie si riunivano davanti alla tivù per seguire da capo a fondo lo sceneggiato o il varietà del sabato sera. Un modello ormai scomparso anche in tivù, se non altro perché gli spot spezzano la narrazione.
Nel 2020 il linguaggio delle istituzioni culturali nello sforzo di traghettare in rete le loro manifestazioni è stato — con rare eccezioni — quel linguaggio novecentesco: l’evento live traslato nella dimensione di una diretta televisiva del 1970. Non un evento nativo digitale, nato sul web e per il web.
Credo — e sull’argomento sarebbe utile uno studio statistico — che l’esperienza risulti soddisfacente per il pubblico più avanti nell’età e quindi ancora padrone della koiné novecentesca. Mi domando invece quale sia la risposta di un giovane cresciuto nell’era dei social. Che poi, dire «social» è una banalizzazione: You Tube ha fruitori differenti da quelli di Facebook, che oggi ha un target più agé rispetto a Instagram che è preferito dai ventenni mentre gli adolescenti si identificano in Tik Tok. Ogni social usa un linguaggio proprio, però tutti presuppongo una fruizione frammentata, una sequenza rapida e casuale di contenuti — immagini, testi, suoni — in un flusso che ognuno si costruisce clic dopo clic.
Utilizzare la rete e i social alla stregua di un canale tv presuppone uno «spettatore» piazzato davanti a un monitor per l’intera durata della conferenza, o dello spettacolo, mentre oggi la maggioranza degli accessi avviene da mobile, ed è arduo immaginare un ragazzo che resiste fisso al cellulare per un’ora — ma anche solo per dieci minuti — senza smanettare. L’iphone è la sublimazione dello zapping.
Torniamo al nostro esempio con Alessandro Barbero. Su You Tube il filmato (durata un’ora e un quarto) di una sua conferenza sul Tumulto dei
Ciompi ha raccolto, da ottobre 2019 a oggi, circa 400 mila visualizzazioni; ma in sei mesi ne ha avute altrettante la clip di poco più di un minuto «Andiamo a bruciargli la casa», ottenuta montando in stile rap alcuni passaggi di quella stessa conferenza.
I due pubblici non combaciano. Età diverse, motivazioni diverse, fruizioni diverse. Ma il «rap dei Ciompi» ha fatto conoscere Barbero — e magari persino il Tumulto dei Ciompi — a una platea nuova. Ha suscitato curiosità nei più giovani, catalizzandone la pur breve attenzione con un linguaggio che gli appartiene. E magari alla prossima conferenza di Barbero in un Salone del Libro finalmente in presenza, qualcuno di quei giovani vorrà esserci, così come vuole essere al concerto del rapper visto mille volte su You Tube.
Per poco che sia, è meglio che niente.
La rete può avvicinare alla cultura chi — per mille motivi
— finora è rimasto escluso solo a condizione che il messaggio sia adeguato, specifico, su misura del «medium». Le istituzioni culturali dovranno dotarsi di social manager veri: non servono a nulla gli apprendisti riciclati e improvvisati. Ambizioso programma, per strutture spesso sclerotiche: ma non c’è altra via. Servono staff capaci di produrre contenuti professionali, pensati e realizzati per pubblici e fini diversificati e mirati. L’esatto contrario, insomma, di alcune esperienza dei mesi passati che non facevano che corroborare, in chi non padroneggia il desueto linguaggio paleotelevisivo, la convinzione che la cultura è soltanto una palla infinita.
Oggi si intravedono segnali di evoluzione del modello «emergenziale»: ad esempio all’egizio Ma in genere l’approccio al web resta legato al classico «streaming» che altro non è una diretta tv Il linguaggio delle istituzioni culturali è stato, con rare eccezioni, novecentesco
Dire «social» è una banalizzazione: You Tube ha fruitori diversi da quelli di Facebook