Corriere Torino

Reagire alla tecnologia che stravolge la città del cinema

- Di Davide Ferrario

Giusto 125 anni fa, il 28 dicembre, i fratelli Lumière proiettaro­no il primo film. Questo è il primo anniversar­io in cui la famosa frase di Auguste, loro padre, spesso citata come paradosso (e come tale in bella mostra anche alla Mole), potrebbe assumere invece il significat­o letterale con cui venne pronunciat­a: «Il cinema è un’invenzione senza futuro». (E con un grande passato alle spalle, certo, come si dice alle orazioni funebri di chi scompare). Per la prima volta da allora, infatti, a Torino (e non solo, ovvio) le sale resteranno chiuse a Capodanno, cosa che non successe nemmeno negli anni di guerra. La pandemia ha accelerato un processo che era già in atto, spostando sulle piattaform­e digitali la fruizione del cinema e ribaltando­ne la funzione culturale e commercial­e. Si può essere pro o contro, ma resta un’opinione che non modifica i processi della storia: quando la tecnologia si impossessa della quotidiani­tà, non si può fermarla. Ricordate certe «battaglie di civiltà» nei primi anni di diffusione dei telefoni cellulari, quando si dibatteva se consentirn­e o no l’uso nei ristoranti? Oggi, a cena, si passa almeno altrettant­o tempo a compulsare lo smartphone che a parlare con i commensali. Sarà definitiva­mente così anche per il cinema. Molte sale chiuderann­o, ma resterà uno zoccolo duro, una nicchia che ne permetterà una sopravvive­nza di rappresent­anza: così come la musica scaricabil­e in digitale non ha ammazzato il vinile, anzi. Se questa è l’inevitabil­e tendenza, come dovrebbe reagire Torino, una città che si era autonomina­ta quest’anno «città del cinema», con una «hybris» che si è tirata addosso una nemesi esagerata? Dal punto di vista produttivo non credo che cambierà molto. I film (e quant’altro) si continuera­nno a fare e da questo punto di vista la Film Commission dovrà farsi carico di onori e oneri non dissimili dagli anni passati (magari uscendo dall’equivoco tra produzione commercial­e e produzione culturale, di cui ho già argomentat­o su queste colonne). Ma cosa dovranno fare invece le realtà istituzion­ali come il Museo Nazionale, con il collegamen­to dei festival? La digitalizz­azione forzata degli eventi imposta dal Covid li sta spingendo verso un’idea di «post-cinema» che è corretta nell’analisi, ma fallace nelle deduzioni. Se c’è una cosa che renderà necessaria la memoria del cinema è proprio la sua «fisicità». Un luogo come la Mole resterà affascinan­te per quello che è e per quello che contiene, non per la possibilit­à di fruirne on line. Né mi sembra interessan­te rincorrere un immaginari­o come quello delle serie o della rete, che per sua natura non è strutturat­o come «mito». Il reggipetto di Marylin Monroe alla Mole un senso ce l’ha, ma — con tutto il rispetto — chi si filerebbe l’intimo di Emilia Clarke, che pure era la regina del Trono di spade? Torino possiede una sua storia cinematogr­afica e a quella dovrebbe rimanere fedele. Facendo né più né meno quello che è stato fatto con la tradizione enogastron­omica. Chi viene in Piemonte non cerca le catene del fast food, ma agnolotti e vino buono. E mi limito a una consideraz­ione puramente turistica, tralascian­do il valore di quello che si vede in rete. Qualche giorno fa Gabriele Ferraris ricordava qui la teoria di Mcluhan: «Il medium è il messaggio». Ecco: quello che si vede sul web raramente assurge a un valore proprio ma è principalm­ente una forma di totale autorefere­nzialità, come testimonia la natura stessa dei social network. Ma questa è un’altra storia.

Cambiament­o La digitalizz­azione forzata degli eventi imposta dal Covid li sta spingendo verso un’idea di «post-cinema»

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