Reagire alla tecnologia che stravolge la città del cinema
Giusto 125 anni fa, il 28 dicembre, i fratelli Lumière proiettarono il primo film. Questo è il primo anniversario in cui la famosa frase di Auguste, loro padre, spesso citata come paradosso (e come tale in bella mostra anche alla Mole), potrebbe assumere invece il significato letterale con cui venne pronunciata: «Il cinema è un’invenzione senza futuro». (E con un grande passato alle spalle, certo, come si dice alle orazioni funebri di chi scompare). Per la prima volta da allora, infatti, a Torino (e non solo, ovvio) le sale resteranno chiuse a Capodanno, cosa che non successe nemmeno negli anni di guerra. La pandemia ha accelerato un processo che era già in atto, spostando sulle piattaforme digitali la fruizione del cinema e ribaltandone la funzione culturale e commerciale. Si può essere pro o contro, ma resta un’opinione che non modifica i processi della storia: quando la tecnologia si impossessa della quotidianità, non si può fermarla. Ricordate certe «battaglie di civiltà» nei primi anni di diffusione dei telefoni cellulari, quando si dibatteva se consentirne o no l’uso nei ristoranti? Oggi, a cena, si passa almeno altrettanto tempo a compulsare lo smartphone che a parlare con i commensali. Sarà definitivamente così anche per il cinema. Molte sale chiuderanno, ma resterà uno zoccolo duro, una nicchia che ne permetterà una sopravvivenza di rappresentanza: così come la musica scaricabile in digitale non ha ammazzato il vinile, anzi. Se questa è l’inevitabile tendenza, come dovrebbe reagire Torino, una città che si era autonominata quest’anno «città del cinema», con una «hybris» che si è tirata addosso una nemesi esagerata? Dal punto di vista produttivo non credo che cambierà molto. I film (e quant’altro) si continueranno a fare e da questo punto di vista la Film Commission dovrà farsi carico di onori e oneri non dissimili dagli anni passati (magari uscendo dall’equivoco tra produzione commerciale e produzione culturale, di cui ho già argomentato su queste colonne). Ma cosa dovranno fare invece le realtà istituzionali come il Museo Nazionale, con il collegamento dei festival? La digitalizzazione forzata degli eventi imposta dal Covid li sta spingendo verso un’idea di «post-cinema» che è corretta nell’analisi, ma fallace nelle deduzioni. Se c’è una cosa che renderà necessaria la memoria del cinema è proprio la sua «fisicità». Un luogo come la Mole resterà affascinante per quello che è e per quello che contiene, non per la possibilità di fruirne on line. Né mi sembra interessante rincorrere un immaginario come quello delle serie o della rete, che per sua natura non è strutturato come «mito». Il reggipetto di Marylin Monroe alla Mole un senso ce l’ha, ma — con tutto il rispetto — chi si filerebbe l’intimo di Emilia Clarke, che pure era la regina del Trono di spade? Torino possiede una sua storia cinematografica e a quella dovrebbe rimanere fedele. Facendo né più né meno quello che è stato fatto con la tradizione enogastronomica. Chi viene in Piemonte non cerca le catene del fast food, ma agnolotti e vino buono. E mi limito a una considerazione puramente turistica, tralasciando il valore di quello che si vede in rete. Qualche giorno fa Gabriele Ferraris ricordava qui la teoria di Mcluhan: «Il medium è il messaggio». Ecco: quello che si vede sul web raramente assurge a un valore proprio ma è principalmente una forma di totale autoreferenzialità, come testimonia la natura stessa dei social network. Ma questa è un’altra storia.
Cambiamento La digitalizzazione forzata degli eventi imposta dal Covid li sta spingendo verso un’idea di «post-cinema»