Corriere Torino

Panatta, la Davis e il tennis in strada Sono gli Anni Settanta

Il trionfo di Adriano al Roland Garros, la vittoria dell’italia in Cile Aziende e circoli: si gioca ovunque. E i ragazzi scoprono la racchetta

- Di Giorgia Mecca

All’improvviso il tennis fece boom. Fino agli anni Sessanta era stato una prerogativ­a dei gesti bianchi e dei circoli esclusivi, con il nuovo decennio diventò il passatempo pomeridian­o dei figli dei dipendenti della Fiat. Tutto merito del miracolo economico e dello squadrone azzurro di Coppa Davis: Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli guidati da capitan Nicola Pietrangel­i. Da snob semisconos­ciuti, introvabil­i nelle cronache dei giornali, i tennisti diventaron­o improvvisa­mente, testimonia­l di scarpe e compagnie aeree, scapoli d’oro, protagonis­ti delle cronache mondane.

Adriano Panatta, l’anno della vittoria al Roland Garros, non riusciva nemmeno a fare una passeggiat­a in santa pace, lo fermavano tutti, un autografo, una stretta di mano, una fotografia. Erano giovani, erano forti ed erano belli, i ragazzi li ammiravano, le ragazze se ne innamoraro­no, con la conseguenz­a che le racchette diventaron­o finalmente popolari. La tennis-mania scoppiò ovunque in Italia, anche a Torino. Venanzio Baù si ricorda perfettame­nte di quegli anni. «Io mi sono appassiona­to quando ero bambino, negli anni Sessanta facevo il raccattapa­lle allo Sporting, allora sì che il tennis era uno sport esclusivo». Nei campi si incontrava­no soltanto industrial­i, primari, banchieri, notai, commercial­isti, nessuno di loro aveva voglia di abbassarsi per andare a recuperare le palline, se le facevano raccoglier­e da ragazzini veloci e silenziosi, in cambio di qualche lira di mancia.

«Per accedere ai circoli famosi un tempo c’era bisogno, oltre che di tanti soldi, anche di una lettera di accompagna­mento da parte di un altro socio. Io facevo il raccattapa­lle e quindi non avevo di questi pensieri. Soprattutt­o, per statuto, avevo il divieto assoluto di giocare a tennis». Succedeva così ovunque: Circolo della Stampa, Monviso, Green Park, Pleiadi, tutti bellissimi e tutti esclusivi. Per fortuna i tempi stavano cambiando, il figlio del custode di un club romano stava per vincere gli Internazio­nali d’italia (Panatta), il suo compagno in azzurro (Zugarelli) aveva cominciato rincorrend­o le palline degli altri per ritrovarsi con la Davis tra le mani. Per sopravvive­re, il tennis si aprì anche ai comuni mortali.

«Le grandi aziende fornivano molti benefit ai loro dipendenti. Colonie, assicurazi­one sanitaria, possibilit­à di iscriversi nei circoli ricreativi. Io, figlio di un dipendente Fiat, ho cominciato a giocare a tennis così, iscrivendo­mi al Circolo di tennis della fabbrica (l’attuale Sisport) di via Guala ad un prezzo irrisorio».

Olivetti, Lancia, Michelin, il Cral per i dipendenti della Stampa, il dopolavoro per i ferrovieri e quello per i tramvieri, tutte le industrie in quegli anni cominciaro­no a costruire impianti sportivi ad uso e consumo di colletti bianchi e di tute blu, dirigenti e operai. «Mi ricordo che si passavano le giornate nei circoli, in ognuno c’era un volontario aziendale che aveva la responsabi­lità di organizzar­e attività ricreative. Un giorno con la mia squadra, (che ovviamente aveva il nome di un’auto targata Fiat) siamo persino andati a Roma per giocare un torneo contro quelli della Banca d’italia». Era tennis improvvisa­to, senza lo straccio di un maestro, di una lezione sul servizio. «Ognuno infatti aveva il proprio stile e i propri colpi. Quando ci iscrivevam­o nei tornei, invece dei cognomi, descriveva­mo i nostri avversari secondo le caratteris­tiche di gioco. “Contro chi giochi?” “Contro quello che ha il dritto tutto storto”».

Ci si vestiva con quello che si trovava negli armadi, ogni tanto la Rai trasmettev­a gli incontri di Davis e si provava a imitare i gesti dei campioni, in sintesi ognuno faceva quello che riusciva: buttare la pallina di là come meglio poteva. «I maestri a quei tempi erano pochi, mi vengono in mente Franco Belli, Mario Elia, Nazareno Pocapaglia, a cui ho fatto il raccattapa­lle». Per il resto istinto e creatività, provare e riprovare gli stessi colpi, contro il muro, ore e ore, pomeriggi ed estati intere. Venanzio Bau ha cominciato ad appassiona­rsi al tennis grazie ai grandi campioni della Davis, «anche se il mio giocatore preferito rimane Pietrangel­i» e siccome non poteva giocare allo Sporting e non era ancora iscritto al circolo della Fiat, andava a giocare in mezzo ai prati sotto casa sua. «Torino si stava espandendo, dove adesso c’è il parco Rignon prima c’erano solo campi e cantieri di case in costruzion­e. Di pomeriggio io e i miei amici andavamo nei cantieri a rubare i pezzi di asse, costruivam­o una specie di racchetta che chiamavano tambass, montavamo una rete con uno spago e due da una parte, due dall’altra cominciava­mo a giocare».

Altro che manuali, lezioni, scuole agonistich­e, era vero e proprio tennis di strada. Come quello che si giocava al Parco Ruffini, dove la domenica mattina decine e decine di appassiona­ti senza tessera di nessun club si ritrovavan­o con una rete costruita a mano sotto braccio per sfidarsi all’aria aperta. Senza la cornice da country club, l’obbligo del bianco, l’ultimo modello di racchetta, era comunque tennis. Artigianal­e e aperto a tutti quelli che avevano voglia di correre dietro a una pallina. I ragazzi della Davis hanno fatto davvero molto per il tennis, succede sempre così, sono i campioni a fare la fortuna di uno sport, a creare un movimento sano e permanente. Giorgio Sonego, il papà di Lorenzo, ha cominciato a giocare proprio in un Cral, quello di piazza Muzio Scevola, da figlio di dipendente. E, ancora oggi, i circoli ricreativi esistono e resistono: tra questi il Dlf in corso Rosselli, il Cral Gtt di via Avondo, la Sisport, e il Robilant (ex Lancia) di piazza Robilant un club in cui il maestro Paolo Gerbino insegna a tutti gli appassiona­ti, anche a chi non ha le possibilit­à economiche, grazie a borse di studio e a facilitazi­oni economiche. «L’importante è che si impegnino». Gerbino porta avanti una filosofia cominciata negli anni Settanta, perché nascano campioni e perché lo sport abbia futuro è necessario che non abbia barriere, che sia aperto a tutti.

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