Panatta, la Davis e il tennis in strada Sono gli Anni Settanta
Il trionfo di Adriano al Roland Garros, la vittoria dell’italia in Cile Aziende e circoli: si gioca ovunque. E i ragazzi scoprono la racchetta
All’improvviso il tennis fece boom. Fino agli anni Sessanta era stato una prerogativa dei gesti bianchi e dei circoli esclusivi, con il nuovo decennio diventò il passatempo pomeridiano dei figli dei dipendenti della Fiat. Tutto merito del miracolo economico e dello squadrone azzurro di Coppa Davis: Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli guidati da capitan Nicola Pietrangeli. Da snob semisconosciuti, introvabili nelle cronache dei giornali, i tennisti diventarono improvvisamente, testimonial di scarpe e compagnie aeree, scapoli d’oro, protagonisti delle cronache mondane.
Adriano Panatta, l’anno della vittoria al Roland Garros, non riusciva nemmeno a fare una passeggiata in santa pace, lo fermavano tutti, un autografo, una stretta di mano, una fotografia. Erano giovani, erano forti ed erano belli, i ragazzi li ammiravano, le ragazze se ne innamorarono, con la conseguenza che le racchette diventarono finalmente popolari. La tennis-mania scoppiò ovunque in Italia, anche a Torino. Venanzio Baù si ricorda perfettamente di quegli anni. «Io mi sono appassionato quando ero bambino, negli anni Sessanta facevo il raccattapalle allo Sporting, allora sì che il tennis era uno sport esclusivo». Nei campi si incontravano soltanto industriali, primari, banchieri, notai, commercialisti, nessuno di loro aveva voglia di abbassarsi per andare a recuperare le palline, se le facevano raccogliere da ragazzini veloci e silenziosi, in cambio di qualche lira di mancia.
«Per accedere ai circoli famosi un tempo c’era bisogno, oltre che di tanti soldi, anche di una lettera di accompagnamento da parte di un altro socio. Io facevo il raccattapalle e quindi non avevo di questi pensieri. Soprattutto, per statuto, avevo il divieto assoluto di giocare a tennis». Succedeva così ovunque: Circolo della Stampa, Monviso, Green Park, Pleiadi, tutti bellissimi e tutti esclusivi. Per fortuna i tempi stavano cambiando, il figlio del custode di un club romano stava per vincere gli Internazionali d’italia (Panatta), il suo compagno in azzurro (Zugarelli) aveva cominciato rincorrendo le palline degli altri per ritrovarsi con la Davis tra le mani. Per sopravvivere, il tennis si aprì anche ai comuni mortali.
«Le grandi aziende fornivano molti benefit ai loro dipendenti. Colonie, assicurazione sanitaria, possibilità di iscriversi nei circoli ricreativi. Io, figlio di un dipendente Fiat, ho cominciato a giocare a tennis così, iscrivendomi al Circolo di tennis della fabbrica (l’attuale Sisport) di via Guala ad un prezzo irrisorio».
Olivetti, Lancia, Michelin, il Cral per i dipendenti della Stampa, il dopolavoro per i ferrovieri e quello per i tramvieri, tutte le industrie in quegli anni cominciarono a costruire impianti sportivi ad uso e consumo di colletti bianchi e di tute blu, dirigenti e operai. «Mi ricordo che si passavano le giornate nei circoli, in ognuno c’era un volontario aziendale che aveva la responsabilità di organizzare attività ricreative. Un giorno con la mia squadra, (che ovviamente aveva il nome di un’auto targata Fiat) siamo persino andati a Roma per giocare un torneo contro quelli della Banca d’italia». Era tennis improvvisato, senza lo straccio di un maestro, di una lezione sul servizio. «Ognuno infatti aveva il proprio stile e i propri colpi. Quando ci iscrivevamo nei tornei, invece dei cognomi, descrivevamo i nostri avversari secondo le caratteristiche di gioco. “Contro chi giochi?” “Contro quello che ha il dritto tutto storto”».
Ci si vestiva con quello che si trovava negli armadi, ogni tanto la Rai trasmetteva gli incontri di Davis e si provava a imitare i gesti dei campioni, in sintesi ognuno faceva quello che riusciva: buttare la pallina di là come meglio poteva. «I maestri a quei tempi erano pochi, mi vengono in mente Franco Belli, Mario Elia, Nazareno Pocapaglia, a cui ho fatto il raccattapalle». Per il resto istinto e creatività, provare e riprovare gli stessi colpi, contro il muro, ore e ore, pomeriggi ed estati intere. Venanzio Bau ha cominciato ad appassionarsi al tennis grazie ai grandi campioni della Davis, «anche se il mio giocatore preferito rimane Pietrangeli» e siccome non poteva giocare allo Sporting e non era ancora iscritto al circolo della Fiat, andava a giocare in mezzo ai prati sotto casa sua. «Torino si stava espandendo, dove adesso c’è il parco Rignon prima c’erano solo campi e cantieri di case in costruzione. Di pomeriggio io e i miei amici andavamo nei cantieri a rubare i pezzi di asse, costruivamo una specie di racchetta che chiamavano tambass, montavamo una rete con uno spago e due da una parte, due dall’altra cominciavamo a giocare».
Altro che manuali, lezioni, scuole agonistiche, era vero e proprio tennis di strada. Come quello che si giocava al Parco Ruffini, dove la domenica mattina decine e decine di appassionati senza tessera di nessun club si ritrovavano con una rete costruita a mano sotto braccio per sfidarsi all’aria aperta. Senza la cornice da country club, l’obbligo del bianco, l’ultimo modello di racchetta, era comunque tennis. Artigianale e aperto a tutti quelli che avevano voglia di correre dietro a una pallina. I ragazzi della Davis hanno fatto davvero molto per il tennis, succede sempre così, sono i campioni a fare la fortuna di uno sport, a creare un movimento sano e permanente. Giorgio Sonego, il papà di Lorenzo, ha cominciato a giocare proprio in un Cral, quello di piazza Muzio Scevola, da figlio di dipendente. E, ancora oggi, i circoli ricreativi esistono e resistono: tra questi il Dlf in corso Rosselli, il Cral Gtt di via Avondo, la Sisport, e il Robilant (ex Lancia) di piazza Robilant un club in cui il maestro Paolo Gerbino insegna a tutti gli appassionati, anche a chi non ha le possibilità economiche, grazie a borse di studio e a facilitazioni economiche. «L’importante è che si impegnino». Gerbino porta avanti una filosofia cominciata negli anni Settanta, perché nascano campioni e perché lo sport abbia futuro è necessario che non abbia barriere, che sia aperto a tutti.